Vanity Fair (Italy)

GR E TA P R I V I T ER A

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o chiamano The Devil, il diavolo. Ma poche ore fa, per la prima volta in vita sua, è salito sul palco tremando di paura. E ora, davanti a me, la corazza da duro, da rocker, scompare, e gli occhi si riempiono di lacrime che cadono giù dritte sugli anfibi neri. «Quando là fuori ho visto quei ragazzi sorridere e battere le mani a tempo, sono tornato al Bataclan», mi racconta Jesse Hughes dietro le quinte. È tornato a quella sera di tre mesi fa, quando un gruppo di terroristi armati ha fatto fuoco sui suoi fan, in una sala concerti nel cuore di Parigi. «Li uccidevano a uno a uno mentre quei poveretti urlavano “S’il te plaît, ti imploro, lasciami vivere”».

LIl death metal è una forma estrema dell’heavy metal: estrema nelle sonorità, estrema nell’ispirazion­e, legata all’occultismo e all’horror. Ma nonostante il soprannome di Jesse Hughes, gli Eagles of Death Metal, di cui è frontman – per i fan, sempliceme­nte EoDM –, non ne fanno parte. Prendono nome da un accostamen­to paradossal­e e scherzoso tra generi lontanissi­mi, il death metal appunto e le melodie degli Eagles, come se una band italiana si chiamasse «I Pooh del Punk». Nel senso che il loro è un rock california­no ruvidament­e classico, molto amato dalla critica e dal pubblico. Jesse poi, con il suo modo istrionico e generoso di interagire con il pubblico, è l’idolo dei fan. Era pieno di gente il Bataclan, il 13 novembre. E fu lì che morirono 89 delle 130 vittime di quella sera di follia. Da allora, con l’eccezione di una brevissima ospitata in un concerto degli U2, gli EoDM non erano più saliti sul palco. Quella di stasera, qui al Debaser Medis di Stoccolma, è la prima data con cui riprendono un tour tragicamen­te interrotto, e ribattezza­to Nos amis, in francese «i nostri amici», proprio in omaggio alle vittime. Con tappa a Parigi, dove incontrera­nno i sopravviss­uti all’attentato. Nei due giorni che trascorro con loro, i ragazzi del gruppo cercano di spiegarmi, tra una prova e l’altra, come sono stati gli ultimi tre mesi della loro vita. La prima cosa che mi dice Jesse è che non teme il palco, che vuole tornare a suonare: «Lo devo a Nick ( Alexander, l’addetto al merchandis­ing ucciso mentre vendeva le magliette della band, ndr), lo devo ai fan». Repubblica­no, convinto difensore del diritto di girare armati per potersi difendere, fa lo spavaldo: «Quei figli di puttana ci hanno portato via i nostri amici, ma non ci fermeranno». Poi però, la sera del concerto, arriva Steev, il manager: «Al gruppo spalla mancano tre canzoni, preparatev­i». E tutto cambia. In camerino i Black Sabbath rimbombano nelle casse, nessuno parla più. Jesse fuma una sigaretta dietro l’altra e si muove

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