Vanity Fair (Italy)

POI SIAMO SCAPPATI»

- CONFESSION­I DI

niente a nessuno. «A mio marito dico che vado con il piccolo in Turchia a fare volontaria­to in un orfanotrof­io. Sapevo solo che sarei atterrata a Istanbul, e che avrei trovato qualcuno all’aeroporto». La prima impression­e di Raqqa? «Un posto bizzarro, con tanta polvere, di colore giallo. All’arrivo mi è sembrato strano vedere gente in giro. Le donne parevano fantasmi». La portano in una casa grande, ricca, con

tappeti e mobili antichi, una casa lasciata

in fretta dai suoi legittimi abitanti, con il

cibo ancora in frigo. E lì ha il primo brivi-

do. Il secondo arriva quando deve vestir- si, e diventare a sua volta un fantasma. «Lì mio figlio mi ha detto: oh, la mamma si traveste da Batman». Un altro brivido lo ha quando vede l’ospe- dale in cui farà la volontaria. «Pareva un mattatoio. Il posto era sporco, senza strumenti. Le infermiere erano tutte straniere, e poi non erano vere infermiere, ed erano sprezzanti. Trattavano malissimo le pazienti, povere siriane di campagna. Non se ne curavano per niente. Era una orribile catena di montaggio di parti cesarei». Mi racconta il suo risveglio? «Mio marito è stato fondamenta­le. Aveva parlato con Dounia Bouzar, l’esperta di radicalizz­azione. Sapeva cosa fare. Mi mandava vecchie foto, di noi, di nostro figlio. Mi parlava dei momenti felici. Mi ricordava ciò che avevo cancellato. Mi rendevo conto che non ero un’orfana, una sradicata, avevo un posto al mondo che avevo lasciato». A dieci giorni dal suo ar-

rivo lei si rende conto che

Raqqa era come il «Terzo Reich a Parigi». «Era davvero il regno del terrore. Pieno di spie. Pensi che all’ora della preghiera la gente correva per strada: per legge, tutti dovevano pregare e i negozi chiudere. C’era un cybercaffè di fronte al mio edificio. Il proprietar­io chiudeva il locale e si nascondeva dentro l’auto. Abbassava il sedile e stava lì sdraiato per tutta la durata della preghiera. Io lo vedevo dal balcone. Lo stress era palpabile. C’erano tutti questi giovani stranieri armati per le vie. Arroganti, nei negozi saltavano le file. Una forza d’occupazion­e». E a quel punto cosa succede? «Succede che i tre ragazzi si rivelano per quello che sono. Non mi lasciano andar via. Mi chiudono in casa. Mi requisisco­no il telefonino. Un giorno, uno dei mostri prende per mano mio figlio e gli dice adesso ti portiamo in moschea. Io urlo mio figlio non è musulmano, non andrà in moschea, il mostro si arrabbia e mi dà un pugno e mio figlio prende la rincorsa e gli si scaglia contro». Lei resta chiusa in questa casa per cin-

que settimane, poi la portano in una ma-

dafa, un pensionato femminile, l’harem dei combattent­i. «Siamo rimasti lì soltanto un giorno, poi siamo scappati. C’erano una cinquantin­a di donne straniere arrivate con i loro figli. C’erano anche due siriane, vendute dalle famiglie. Era un posto tremendo, con il filo spinato. La direttrice si chiamava Umm Adam. Aveva una cinquantin­a d’anni, parlava francese senza accento, penso abbia vissuto in Francia, credo sia stata in Afghanista­n. Aveva la pistola e le manette, dovevo stare attenta». E le altre come erano? «Sembravano pazze. C’era una francese, sulla trentina, fuori di testa. Stava male, era evidente, credo prendesse della droga». E Umm Adam che faceva? «La matrona. Quel posto era il mercato dei mujaheddin. Le straniere per i combattent­i hanno un valore molto alto. I loro criteri sono gli stessi dei Paesi da cui provengono. Le straniere occidental­i erano per loro prede di lusso». Che lingua si parlava? «L’arabo era la prima lingua, il francese la seconda». Surreale che il francese fosse la secon- da, no? «Surreale, sì. C’erano tante francesi di origine magrebina». Della rocamboles­ca fuga non scrivo, rovinerei il finale del libro. Sophie Kasiki dice che sta male, al ricordo, è consapevol­e della fortuna che ha avuto, sa di essere riemersa da un pozzo senza fondo. La sua paura, mi dice, era di morire e di abbandonar­e suo figlio a Raqqa. Poiché a quel punto sapeva. Aveva visto i video sadici degli sgozzament­i nel salotto dell’harem. A Hugo sussurrava che da grande doveva comportars­i bene con le donne, e che papà lo amava molto: «Se fossi morta, forse qualcosa di quelle parole gli sarebbe rimasta dentro». L’odissea di Sophie è durata due mesi, più due mesi di prigione al ritorno in Francia per sottrazion­e di minore. Oggi non fa più l’assistente sociale, e aspetta una bimba, che vedrà la luce in primavera. Nell’attesa, parla: della sua caduta, del suo viaggio, delle ragioni per cui ci si perde, nella speranza che le sue parole accendano un barlume in cuori fragili, tentati dal baratro. Prima del commiato, le ho fatto un’ultima domanda. Cercava un senso. L’ha trovato? «Ho imparato che la vita è un regalo. Potermi svegliare e guardare mio figlio e abbracciar­lo e godere giorno dopo giorno di ciò che c’è perché finalmente vedo che non è male: questo è il senso che ho trovato».

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