LA VITTIMA
GUARDATE QUESTO RAGAZZO: È LUI
A i carnefici e alle loro famiglie si concedono piedistalli, arene televisive, visibilità. Le vittime, sgozzate peggio delle bestie, non hanno neanche il diritto al pudore, quel sentimento di vergogna che pare sradicato in tempi in cui tutto è palcoscenico, l’importante è che sia una «storia che funzioni» e faccia fare ascolti. Il delitto di Roma ha un’unica vittima, ed è Luca Varani, il 23enne ucciso a coltellate e martellate al quartiere Collatino. Ammazzato due volte: la prima in quella casa a Roma Est da Manuel Fo o e Marc Prato, la seconda il giorno dopo, fra padri di famiglia che vanno in Tv a raccontare quanto i propri figli assassini sono « ragazzi modello» e altri che scrivono pergamene di autodifesa senza spendere una parola sulle vittime.
Nel racconto di questo efferato delitto non è stato risparmiato niente, e anzi si è molto indugiato, con dettagli morbosi – e chissà quanto fondati – che qui di proposito non troverete, sulla storia del giovane Luca Varani, nato nella Bosnia in guerra, adottato da bambino e portato in Italia. L’adozione di un ragazzino strappato alla disgrazia non dovrebbe essere un particolare piccante da aggiungere al carnaio giornaliero di chi lo vuole utilizzare per far vedere che, insomma, pure ’sto Luca aveva i suoi problemi, ma una storia – almeno quella – a lieto ne. Per giorni siamo stati inondati dal flusso di incoscienza dei killer e dei loro padri. Valter Fo o, padre di Manuel, è andato a Porta a porta a spiegare che suo glio era «un ragazzo modello, con un quoziente intellettivo superiore alla media. Non uno sbandato». Non avendo gli, non so neanche immaginare cosa succeda a un padre quando scopre che suo glio è un assassino. E anche se ne avessi, non riuscirei a dire «a me non potrebbe capitare». Però perché, caro Vespa, portare in Tv a cadavere ancora caldo il padre di uno degli assassini che pontifica su quanto fosse bravo e buono il glio? L’altro padre, Ledo Prato, ha preferito scrivere sul suo blog un post egotico in cui non ha speso una parola che sia una per la vittima, non un cenno di vergogna o di compassione per quel ragazzo morto. Ed è vero che le colpe sono di chi commette i reati, che la responsabilità è individuale, ma perché scrivere un papello per parlare di sé? Un passaggio, terribile, mi ha colpito: «In questi giorni in cui la stampa ha fatto a brandelli la vita di tre famiglie colpite, ciascuna in modo drammaticamente diverso, si sono letti giudizi sommari, verità parziali o di comodo, usate espressioni dei tempi più bui della vita civile». Quel «drammaticamente» mi sembra poco per sottolineare la differenza tra la famiglia che ha un glio in galera e quella che ce l’ha al cimitero. Spesso si sente dire che il tal assassino era «una così brava persona». E magari questi, prima di diventare assassini, lo erano o lo sembravano, ma ciò non ridimensiona il fatto che hanno ucciso, con un’efferatezza che sgomenta. E hanno troncato la vita di un ragazzo meno fortunato, più vulnerabile, con un disprezzo che dà da pensare, e dovrebbe dar da pensare anche a quei due padri.
Ehai voglia a cercare la molla che fa scattare, l’autogiustificazione di Manuel Foffo che si sente «incompreso» dal padre che gli vende l’adorato motorino, non gli compra l’auto desiderata e gli preferisce il fratello nella gestione del ristorante e quindi con l’amico va lungamente a caccia di un ragazzo da uccidere e poi lo uccide, ma in realtà voleva uccidere il padre. O la lettera scritta da Marc Prato prima di «tentare» il suicidio (perdonate lo scetticismo), in cui racconta del desiderio di diventare donna, frustrato dall’opposizione della famiglia. Hai voglia pure a dare la colpa alle droghe che «trasformano» le persone e le rendono violente. Negare la malattia nella psiche di alcune persone sarebbe un errore (e anche la malvagità lo è), ma quello che è insopportabile è quel puntare all’ «incapace di intendere e di volere», quella continua deresponsabilizzazione di chi non riesce a farsi carico delle proprie colpe e le scarica altrove.
NON
Morto questo
Papa non se ne
farà un altro.
CAINO