Vanity Fair (Italy)

IO CORRO SEMPRE IN AUTO,

MA ANCHE SUGLI SCI E IN MOTO. MIA MOGLIE ESCE FUORI DI TESTA

-

En tra a passi piccoli e silenziosi, all’orecchio un telefono a conchiglia di quelli usciti di produzione circa quindici anni fa, con un pezzo di nastro adesivo sul ricevitore. Indossa una T- shirt nera, jeans e scarpe Oxford marroni, e sta cercando patatine da sgranocchi­are mentre fa una telefonata. Nella stanza dove sto aspettando l’inizio dell’intervista ci siamo solo io che faccio nta di niente e Robert Redford che parla di una sceneggiat­ura. Quando se ne va, con il piatto di patatine in mano, sorride compiaciut­o come se fosse riuscito a non farsi notare. Pochi minuti dopo rientra per l’intervista, gli stringo la mano e lui mi saluta così: «Ah, ma noi ci conosciamo già! Piacere, sono Bob. Di cosa vuole parlare?». Già, Bob, da dove cominciare? Magari dal fatto che Tutti gli uomini del presidente è una delle ragioni per cui ho iniziato a fare il giornalist­a? O dal dialogo con Paul Newman sullo strapiombo sopra le cascate in Butch Cassidy, quello in cui confessi di non saper nuotare prima di tuffarti comunque, perché è così che funziona nella vita? O dal tuo ingresso al Plaza abbracciat­o a Jane Fonda in A piedi nudi nel parco, lo stesso modo di camminare dell’incursione di prima in cerca delle patatine? O ancora da quel cappello da esplorator­e e dalle bretelle che indossavi nella Mia Africa, con quel ciuffo biondo e impossibil­e che – noto ora – a 79 anni è rimasto lo stesso? Invece, iniziamo da questo lm con cui lui torna alla sua vecchia passione, il giornalism­o. Si intitola Truth - Il prezzo della verità ed è basato su una storia vera accaduta nel 2004, quella dell’indagine del team investigat­ivo della trasmissio­ne 60 Minutes della Cbs sulle presunte agevolazio­ni a George W. Bush nel periodo in cui invece di andare in Vietnam si arruolò nella National Guard del Texas. Questa però non è la storia di un successo giornalist­ico. Non è l’indagine sullo scandalo Watergate del Washington Post che portò alle dimissioni di Richard Nixon, e che Redford ha portato sullo schermo, appunto, in Tutti gli uomini del presidente. Alla ne di Truth, come nella realtà, l’anchorman Dan Rather (interpreta­to da Robert) e la producer Mary Mapes (Cate Blanchett) vengono licenziati. E anche se nessuno ha ancora dimostrato che i documenti su cui si basava la loro inchiesta erano falsi, nel lm si ammette che non vennero fatte tutte le verifiche necessarie prima di attaccare George W. Bush.

Perché ha deciso di fare questo lm? «È una storia che porta a farsi delle domande. La mia opinione è che lo scandalo su quei documenti venne montato ad arte per oscurare la vera faccenda. E cioè, che Dan Rather e Mary Mapes avevano identifica­to una questione reale». Certo, se invece di Tutti gli uomini del presidente da ragazzo avessi visto Truth, non so se mi sarei buttato nel giornalism­o. «Eppure i due lm si occupano della stessa cosa: la ricerca della verità. La differenza è che Bob Woodward e Carl Bernstein, i due reporter alle prime armi che scoprirono lo scandalo Watergate, avevano l’appoggio del loro giornale: sia il direttore Ben Bradlee che la proprietar­ia del Washington Post Katharine Graham sostennero no all’ultimo la loro inchiesta contro la potentissi­ma amministra­zione di Richard Nixon. Dan Rather e Mary Mapes invece a un certo punto persero l’appoggio dei loro boss della Cbs». Secondo lei, adesso è più difficile per i giornalist­i arrivare alla verità? «Sì, perché subiscono l’attacco sia dei politici che delle grandi multinazio­nali. Ed è questa la vera minaccia oggi, perché io sono convinto che il giornalism­o sia il meccanismo fondamenta­le su cui si basa la ricerca della verità. Per me è una questione personale, forse perché da bambino andavo in bicicletta a distribuir­e il quotidiano locale, il Santa Monica Independen­t. O perché col mio lavoro a me interessa indagare le zone grigie della società americana». Perché è tornato alla recitazion­e? «Mi mancava. Per molti anni ho prodotto e diretto, ma quando nel 2014, con All Is Lost - Tutto è perduto, è arrivata l’occasione di recitare soltanto, senza preoccupar­mi del resto, l’ho presa al volo. Mi ha attratto che fosse un lm senza dialogo, e senza effetti speciali». In quel lm lei è un naufrago che cerca di sopravvive­re nell’oceano. So che nel corso delle riprese ha perso un po’ di udito: come va? «Non mi è mai tornato del tutto. Ma, anche se l’avessi saputo prima, non avrebbe avuto importanza. L’avrei fatto comunque». Guardando alla sua carriera, c’è un lm che considera un momento di svolta? «Un po’ A piedi nudi nel parco, che avevo fatto prima a Broadway, ma soprattutt­o Butch Cassidy. Devo molto a Paul Newman: era già una superstar e io nessuno, e c’erano 14 anni di di erenza tra noi. Senza di lui non avrei mai avuto la parte. Gli studios non mi volevano: siccome avevo fatto quella commedia romantica, mi considerav­ano un attore comico. E George Roy Hill, il regista, mi voleva nella parte di Butch Cassidy mentre io mi sentivo più a ne a Sundance Kid. Alla ne la decisione spettò a Paul che, dopo una serata passata assieme, diede il via libera dicendo che voleva al suo anco un attore, non una celebrity».

Siete rimasti molto vicini, anche fuori dal set. «È stata un’amicizia incredibil­e. C’è stato un periodo in cui vivevamo vicini in Connecticu­t e ci facevamo scherzi in continuazi­one. Lui era patito di auto, e una volta per il suo compleanno gli feci mettere in giardino una Porsche sfasciata che avevo trovato da un demolitore, impacchett­ata con un nastro rosso, e solo un biglietto con su scritto “Buon compleanno”. Lui non mi disse niente ma un paio di settimane dopo aprii la porta di casa e trovai all’entrata un blocco di metallo: era la Porsche, che Paul aveva fatto comprimere. Anch’io non dissi niente ma chiamai di nuovo il demolitore e gli chiesi di trasformar­e il blocco in una statua, che gli feci piazzare in giardino». Immagino le risate. «Mai un commento: non ne abbiamo parlato neanche una volta». Poi avete fatto insieme anche La stangata: che effetto le fa rivedersi in quei lm? «Non mi piace. In realtà, molti dei miei lm non li ho nemmeno visti». Sta scherzando, vero? «No. Per esempio, Come eravamo non l’ho mai visto, ma anche molti altri: una volta - nito un progetto, preferisco guardare avanti. Anche La stangata non l’ho guardato - no a qualche tempo fa quando, cercando in un negozio un dvd da vedere con mio nipote, l’ho trovato in uno scatolone marcato “Vecchi lm”. Mi sono detto: “Cavolo, ma è già considerat­o vecchio?”. Ho chiesto a mio nipote se lo aveva visto, gli ho detto che non lo avevo visto neanch’io e lo abbiamo preso. Mi è parso un buon lm». Quella era l’epoca in cui lei era un sex symbol assoluto: le piaceva? «All’inizio tantissimo, anche perché era un aspetto dell’essere famosi che non mi aspettavo: ero lusingato, mi faceva sentire bene camminare per strada ed essere osservato. Ma poi tutta questa attenzione cominciò a innervosir­mi: iniziai a preoccupar­mi dell’impatto che avrebbe avuto sulla mia vita. Perché la gente non sapeva nulla di me, e quindi evidenteme­nte proiettava su di me qualcosa dei personaggi dei miei lm». Che cosa fece, allora? «Poiché cominciavo a sentirmi trattato come un oggetto, ho messo sulla mia scrivania un cartello con la parola “Oggetto”. E sotto ho scritto: “Primo, stai attento a non essere trattato come un oggetto. Secondo, stai attento perché, se non lo fai, comincerai a comportart­i come un oggetto. Terzo: in quel caso, prima o poi diventerai un oggetto”. E ogni volta che cedevo alle lusinghe dell’immagine guardavo quel cartello». Funzionò? «Sì, ma poi capii che per evitare ogni rischio il modo migliore era andarmene da Los Angeles. E comprai i primi appezzamen­ti di terra a Sundance, in Utah, per avere un posto dove rifugiarmi con la mia famiglia tra un lm e l’altro». Da giovane aveva scelto l’università del Colorado per stare più vicino alla natura. «Arte e natura sono le due cose più importanti nella mia vita. Negli anni del college ho anche frequentat­o l’Accademia di belle arti a Firenze: ricordo che non avevo neanche i soldi per andarmene, alla ne, ma fu un piacere restare incastrato in quella città. Quanto al richiamo della natura, è sempre stato fortissimo, e mi fa soffrire vedere quello che sta succedendo al nostro pianeta. È una guerra contro il cemento e i bulldozer, che io combatto comprando appezzamen­ti di terra per preservarl­i: attorno a Sundance sono già riuscito a salvare 6 mila ettari». Lei ha fondato il festival di Sundance, Paul Newman un’azienda alimentare a scopo beneffico, Jane Fonda si è impegnata in politica: perché secondo lei la sua generazion­e di attori è così diversa dall’attuale? «Per me tutto è nato da un principio dei nativi americani, che dicevano: se prendi qualcosa dalla terra, devi piantare qualcos’altro. A un certo punto della mia carriera avevo raggiunto un successo tale che mi si è posto il problema di cosa farne: potevo continuare sulla stessa strada e diventare ancora più famoso, oppure creare qualcosa per gli altri. Credo che per Paul e Jane la motivazion­e sia stata la stessa: stavamo tutti restituend­o qualcosa». È vero che la rivedremo con Jane Fonda? «Sì, ed è incredibil­e, perché ogni volta che ci diciamo che sembra non ci sia più niente da fare spunta una nuova idea: Jane non è mai stata impegnata come ora. Insieme stiamo lavorando a un adattament­o del libro Our Souls at Night di Kent Haruf. È la storia di due vicini di casa anziani i cui partner sono morti, e che per confortars­i si mettono assieme. È una storia di amore al tramonto della vita». Lei come si mantiene giovane? «Scio, vado a cavallo, nuoto: sono sempre stato attivo sicamente. Mi diverto e, soprattutt­o, cerco di non pensare all’età che avanza: l’errore più grande è fermarsi a pensare quanto sei vecchio». Da giovane era un pilota di auto da corsa: guida ancora? «Sì, e vado velocissim­o. Mia moglie esce fuori di testa quando sono io alla guida, impazzisce, ma la velocità è una cosa che ti entra nel sangue, non te ne liberi più, e non vado veloce solo in macchina ma anche in moto e sugli sci. Mi piace quello che la velocità fa alla concentraz­ione e ai riflessi, mi piace che ci voglia tanta pratica, e mi piace anche l’adrenalina. La macchina più preziosa che ho è una Porsche Super Speeder del 1955, quella che guidava anche James Dean». Per che cosa vorrebbe essere ricordato? «Solo per il lavoro che ho fatto. Non per come sono stato bravo a promuoverm­i, non per la mia vita privata: vorrei che la gente dimenticas­se tutto il resto e guardasse solo quello che ho fatto, perché se considera tutta la mia carriera c’è un lo rosso che congiunge tutti i miei lm». E qual è? «Sta solo a chi guarda deciderlo».

TEMPO DI LETTURA PREVISTO: 12 MINUTI

 ??  ?? IL PRIMO OSCAR Il primo film che Redford dirige, Gente comune, nel 1981 vince 4 Oscar, compreso quello alla regia.
IL PRIMO OSCAR Il primo film che Redford dirige, Gente comune, nel 1981 vince 4 Oscar, compreso quello alla regia.
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy