Vanity Fair (Italy)

La ricetta di papà

«Lui, per me, è svegliarmi la domenica con il profumo del suo ragù». Così ALESSANDRO BORGHESE, chef tra i più ricercati, ripensa al padre appena scomparso, e al primo San Giuseppe senza di lui. Che gli ha insegnato tanto. Non solo in cucina

- di SAR A FAILL ACI

«Papà, per me, è svegliarmi con l’odore del ragù sul fuoco. Da quando avevo otto-nove anni, la domenica mattina, saltavo giù dal letto presto per guardarlo cucinare il grande pranzo di famiglia. Parliamo della cucina partenopea, che gli aveva insegnato nonna Concetta: papà era da sartù di riso, da casatiello, da schia one in pummarola; il ragù lo metteva a cuocere la mattina presto perché, diceva, “deve pensare”. È stato lui a iniziarmi al mondo gastronomi­co». Alessandro Borghese ha un tono di voce che mette subito allegria perché suona come una perenne risata e non si smorza nemmeno quando parla del padre che ha appena perso. Luigi Borghese, imprendito­re di origine napoletana, marito per più di 30 anni di Barbara Bouchet da cui ha avuto Alessandro e Massimilia­no, se ne è andato il 1° febbraio lasciando al glio un patrimonio di ricordi felici, un tratto caratteria­le piuttosto speci co – la cazzimma napoletana – e l’insegnamen­to più prezioso: goditi la vita. Questo 19 marzo sarà, per lo chef, la prima festa del papà senza papà. Un papà che, per la prima volta, accetta di raccontare. «Sono stato fortunato perché mio padre me lo sono vissuto tanto: eravamo legatissim­i, forse perché ci somigliava­mo molto. Quando è nato mio fratello, io avevo già 14 anni ed è stato naturale passare ancora più tempo insieme. Da buon napoletano, aveva mille attività e mi portava con sé ovunque. Aveva iniziato vendendo arance a 9 anni al casello autostrada­le perché veniva da una famiglia senza mezzi: erano 13 tra fratelli e sorelle, e suo padre, pilota di macchine da corsa, era morto giovane in pista. Lui stesso aveva la passione per i motori e me l’ha trasmessa: aveva una scuderia di moto e correvamo insieme. Si era fatto da solo, prima commercian­do in autoricamb­i, poi aprendo una casa d’aste di quadri e tappeti, e dopo aver sposato mia madre anche una casa di produzione cinematogr­a - ca. Io lo seguivo e lo osservavo muoversi, mi ha cresciuto nella strada: aveva la terza media ma ci sapeva fare con la gente. Era charmant e con le donne aveva una galanteria d’altri tempi, da sciupafemm­ine napoletano. Quando negli anni Settanta incontrò mia madre, un’immigrata cecoslovac­ca arrivata da poco in Italia per fare l’attrice, perse completame­nte la testa ma la dovette corteggiar­e per mesi. Di lei era geloso, certo, ma prevaleva l’orgoglio: guardate pure mia moglie, tanto è mia moglie. «Sono stato a lungo un glio unico, coccolato e viziatissi­mo. I miei erano due che si erano fatti da soli e sapevano quanto è importante seguire le proprie passioni: non mi hanno mai stressato per la scuola, piuttosto incoraggia­to a trovare la mia strada e perseguirl­a al meglio. Papà diceva sempre: il segreto è fare quello che ti piace, non devi passare neanche un giorno a lavorare. «Era un sognatore e, quando mi vedeva cucinare in television­e, mi diceva: “Io ogni tanto mi chiedo, ma cumm’hai fatto?”. Non si capacitava, non perché dubitasse delle mie capacità ma perché si lasciava sorprender­e dalla vita. E poi mi dava sempre consigli: “Non devi ingrassare. In Tv stai bene se hai un chiletto in meno”. Ci ha sempre tenuto all’aspetto: lui era sempre elegantiss­imo, in giacca e cravatta, mai un capello fuori posto. «Credo che mio padre e mia madre si siano migliorati la vita a vicenda. Dopo 35 anni insieme però si sono separati. Noi gli non ne abbiamo so erto, forse perché ci è sembrata una nta separazion­e: sempliceme­nte, mamma voleva viaggiare mentre papà restava concentrat­o sul lavoro, per il resto erano sempre insieme e mamma è stata accanto a lui no alla ne. Era malato papà, da dieci anni aveva un linfoma non Hodgkin, un cancro al sangue, ma si comportava come se non lo fosse; appena si riprendeva da una crisi, diceva che stava bene, saltava sulla macchina e veniva a Milano. Era un caterpilla­r, mica come me che se ho mal di testa prendo l’analgesico. Io non so come in certi momenti riusciva a stare quadrato e dritto. «Una notte, si era ricoverato la sera prima per una crisi, non ha superato una complicazi­one respirator­ia e la mattina non c’era più. Senza di lui è tosta, ma si va avanti. Per fortuna, nel frattempo, sono diventato padre anch’io. Papà era pazzo di Arizona, mia glia, nalmente una femmina: la viziava almeno quanto me e insieme si divertivan­o come pazzi. Mi manca ogni giorno ma, se penso a papà, non posso proprio essere triste: ha fatto una gran bella vita, e l’ha fatta fare anche a me».

Quella di Alessandro, chef di successo, Luigi ha fatto in tempo a vederla. A 40 anni infatti, Borghese non solo fa ascolti altissimi con i suoi programmi Tv ( 4 ristoranti e Junior MasterChef su Sky Uno) ma è il cuoco che ha mostrato di avere maggiore intuito. È stato il primo ad andare in television­e sul satellite, il primo attivo sui social, e oggi ha un format ( Kitchen Sound) su quattro piattaform­e diverse: le stesse ricette vanno in onda in Tv (su Sky), in radio (Rds), su Internet (Yahoo) e si possono gustare live nel temporary restaurant che dal 31 marzo apre all’interno del casinò di Sanremo per tre mesi. Nello stesso tempo, gestisce con la moglie Wilma Oliviero un catering per aziende e grandi eventi, AB Il lusso della semplicità, con cui è determinat­o a portare la grande cucina italiana nel mondo.

Merito della cazzimma?

«La disinvoltu­ra davanti alla telecamera in realtà l’ho presa da mamma». Una mamma glaciale, sembrerebb­e. «Solo in apparenza. Doveva vederla quando sono partito a 18 anni per fare il cuoco su una nave da crociera: venne al

porto con la torta di compleanno per festeggiar­mi, e mi regalò uno stereo e uno smoking per le cene con il comandante. Peccato che naufragamm­o, la nave a ondò, stereo e smoking nuovi giacciono in fondo al mare». Come naufragò? «Ero imbarcato sull’Achille Lauro. Partimmo da Genova per portare la nave a fare la stagione delle crociere in Sudafrica, il viaggio durava più di un mese. Il 30 novembre del 1994, al largo della Somalia, durante una serata di gala, uno dei motori prese fuoco e si incendiò tutta la nave. All’alba, quando arrivarono i primi soccorsi, era già completame­nte inclinata. Io, pazzo scatenato, ero sceso decine di volte a salvare persone imprigiona­te sotto, soprattutt­o anziani; più di una volta, per il fuoco o per l’acqua, ho pensato di morire. Incoscienz­a della gioventù: non credo che oggi avrei il coraggio di fare lo stesso». Quante vittime ci furono? «Fortunamen­te, solo due. Noi dell’equipaggio fummo gli ultimi tratti in salvo, ci prese una petroliera e passammo tre giorni e tre notti all’aperto. Aspettai il mio turno dal marconista per telegrafar­e ai miei che stavo bene. Mia madre era fuori di sé dall’ansia: alla television­e avevano detto che non c’erano italiani tra le vittime, peccato che io avessi il passaporto americano: sono nato a San Francisco». Come le cambiò la vita quell’esperienza? «Ho sviluppato un attaccamen­to alla vita ancora più forte, e i problemi sono diventati piccoli piccoli. Rientrato in Italia, dopo due settimane mi rimbarcai sulla nave che sostituiva l’Achille Lauro per la stagione: sapevo che se non fossi risalito subito a bordo non l’avrei fatto più». Quando ha capito che avrebbe fatto il cuoco di profession­e? «Dopo quell’esperienza, scesi e iniziai a girare i ristoranti: Londra, San Francisco, New York. In America imparai a lavorare in brigata, anche se ancora oggi so di essere una primadonna: chi è leader dentro, e io ero trascinato­re già dalla scuola, è di - cile che riesca a delegare». Altri difetti? «Sono permaloso, ma con il tempo ho imparato a smussare gli angoli. L’indole non la cambi, però puoi migliorare. Mia moglie mi ha aiutato tantissimo: le donne sono esseri superiori». Sua moglie sicamente somiglia a sua madre. «Solo perché è bionda. Tutte e due sono bellissime ( mostra la foto sul cellulare della moglie sicatissim­a in costume da bagno, ndr)». C’è competizio­ne tra voi grandi chef ? «Ci prendiamo in giro. Io sono nella television­e gastronomi­ca da una vita, e tutti i colleghi ai tempi mi dicevano che si doveva stare in cucina invece che in Tv; io replicavo che quello era il futuro, bastava vedere l’America. Negli anni, sono arrivati tutti: Carlo ( Cracco, ndr), Bruno ( Barbieri, ndr), Gennaro ( Esposito, ndr), Oldani. A quel punto mi sono divertito io: “Cambiata la vita, vero?”». Perché non ha fatto lei MasterChef? «Me lo chiesero, ma preferivo fare Junior con i bambini, mi interessa la propedeuti­ca. Gli adulti con la smania della telecamera? No, grazie». Pentito? MasterChef ha più spettatori. «Se parliamo di ascolti, Alessandro Borghese 4 ristoranti li fa molto simili e ben più alti di Hell’s Kitchen, per esempio. Non ho questa smania». Non la infastidis­ce vedere bambini che scimmiotta­no gli adulti? «Non fanno operazioni a cuore aperto, cucinano. E sono gli dei miei programmi, sono cresciuti con me. Ai nostri tempi i bambini cantavano, c’era lo Zecchino d’oro, oggi stanno ai fornelli. E poi la cucina è amore e altruismo, fare un piatto per qualcuno è dedicare tempo ed energie all’altro, è anche educativo». Come sono i genitori dei concorrent­i? «Alcuni hanno l’intelligen­za di dire ai - gli: è un gioco, partecipa, impari a crescere. Ma ci sono anche gli invasati stile il lm Little Miss Sunshine, che agghindano le bambine. Noi giudici cerchiamo di non avere contatti con i genitori». Sua glia cucina? «Ha 4 anni, mangia soprattutt­o. E di tutto. Io mi occupo della selezione delle materie prime: congelo per lei i migliori - letti di pesce, di carne, minestre, legumi. Come tutti i bambini, è pazza della cotoletta: la settimana scorsa l’ha ordinata al ristorante dell’albergo in montagna speci cando che la voleva con la demi- glace, la salsa che le preparo io. Il cameriere era sconvolto, io sono scoppiato a ridere». Che padre è? «Completame­nte impazzito. La volevo femmina, attaccata al papà, perché mi son cresciuto mio fratello, quindi nella mia testa il maschio ce l’avevo già». Va d’accordo con suo fratello? «Siamo molto diversi, lui è più riservato, ma sono il suo big brother: gli ho cambiato il pannolino e a 18 anni gli ho regalato la macchina, se ha un problema chiama me. Ora fa il barman in Svizzera, lo tengo d’occhio». Perché ha chiamato sua glia Arizona? «È il titolo di un brano musicale dei Kings of Leon che piace a me e a mia moglie. La musica, come dico in Kitchen Sound, ha lo stesso potere evocativo della cucina: senti un ri , assaggi un piatto che faceva tua nonna e torni in un istante a quel momento del passato. Io e Wilma siamo due rockettari: Rolling Stones e Led Zeppelin come se piovesse. Il nostro anello di danzamento è fatto a teschio, mi vesto solo di nero con i pantaloni stretti nonostante siano sempre più aderenti. Adoro mangiare. Papà, perdonami».

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