Vanity Fair (Italy)

I BAMBINI FANTASMA DELLA GUERRA

- di RICCARDO ROMANI

PER SOPRAVVIVE­RE, I MIEI FIGLI DI 8 E 14 ANNI LAVORANO NEL CAMPO: NEI GIORNI FORTUNATI GUADAGNANO CINQUE DOLLARI

La ragazza americana ha modi garbati, anche se fatica a spiegarsi. Impugna un pennarello nero e scrive «4» sul braccio di un bimbo di un anno. Le cifre sulla pelle sono fantasmi difficili da scacciare, per fortuna la biondina del Michigan lavora per un’agenzia umanitaria e quel numero impresso sulla carne è solo una precauzion­e. Al piccolo, con la sua famiglia e una ventina di altri profughi siriani, è stato assegnato l’autobus con un enorme «4» stampato sui lati. Sono destinati a un nuovo campo profughi, a 40 chilometri da qui. Avvolti da coperte, evocano valigie dimenticat­e su un nastro trasportat­ore che non si ferma mai.

È una scena che si ripete senza sosta a Erbil, Nord dell’Iraq, come a Baghdad, ma anche in Giordania, Libano, Turchia e Grecia. Quel numero segna l’ingresso per migliaia di bambini in un limbo contempora­neo. Molti sono nati al tempo della guerra, sprovvisti di qualsiasi documento d’identità e di un certificat­o di nascita. Per la legge è come se non esistesser­o. Fluttuano nel vuoto pneumatico di questa epoca scandita dall’innalzare stupidi muri.

Mohamed viene da Al-Hasakah, città in mano a Isis nel Nord della Siria. È scivolato verso Erbil in circostanz­e fortunose, poi è salito su un pullman che l’ha depositato presso una missione umanitaria a Baghdad. Ha due bambini, 18 mesi e 3 anni. L’unica possibilit­à per far ottenere loro un passaporto sarebbe tornare in patria. Ma non si può, e in Iraq non esiste una procedura per questo pezzo di carta. Il loro destino è a dato alle organizzaz­ioni internazio­nali.

Solo nel 2015 i bambini «invisibili» usciti dalla Siria sono almeno 240 mila. Cifre ancora più alte se si estende il conto alle zone di conflitto irachene. Andare a registrare una nascita in un u cio governativ­o può significar­e la morte. «Presentars­i per ottenere un certi cato suscita sospetti», dice Hussain, un agricoltor­e scappato in Iraq con la glia di 6 mesi. «Se pensano che tu stia per fuggire, credono che tu sia un oppositore del regime. Puoi finire nei guai».

Con il conflitto siriano che dura da sei anni, il numero di «invisibili» sparsi nei numerosi campi profughi della regione supera il milione: molti sono arrivati bambini e oggi sono adolescent­i. Il campo profughi di Azraq in Giordania è diventato la quarta città più popolosa del Paese: l’urgenza più importante riguarda l’acqua potabile. La burocrazia viene dopo.

Flint McCurry, operatore umanitario di Unhcr, l’Alto commissari­ato Onu per i rifugiati, ha lavorato a lungo nel distretto di Ma-fraq, nel Nord della Giordania: «Il campo di Azraq è passato in tre anni dall’essere un semplice centro di raccolta a una struttura urbana vera e propria. Ci vivono decine di migliaia di minori, nessuno di loro può accedere a una scuola, e probabilme­nte in futuro non avrà neppure diritto a un lavoro.

Senza parlare della possibilit­à di viaggiare. Molti di loro porteranno una specie di marchio per tutta la vita».

Ad Azraq stanno studiando una via alternativ­a: grazie alle donazioni di privati, si progetta la creazione di 100 piccoli esercizi commercial­i, metà da affidare ai giordani e l’altra metà alle famiglie di rifugiati. Nasce un’economia laterale, una legittimaz­ione alla permanenza attraverso il commercio.

Quello che il mondo occidental­e oppone a questo fenomeno intollerab­ile è un approccio pragmatico. All’ultimo e controvers­o Consiglio Europeo è parso chiaro quale sia il valore dato ai rifugiati. Un Paese dell’Est Europa disposto ad accogliern­e riceve in premio 93 milioni di euro. Profughi come commoditie­s: è per ora la soluzione più praticata. Centinaia di migliaia di bambini in questo limbo legale possono essere appetibile merce di scambio.

Nella valle della Bekaa, in Libano, gli insediamen­ti di rifugiati sono diventati negli anni parte della geografia. Questo Paese, come la Giordania, ha una forte tradizione di accoglienz­a. Ma nella Bekaa, sulla strada verso la frontiera per Damasco, l’emergenza è struttural­e. I rifugiati pagano ai residenti afitti no a 50 dollari al mese per una tenda o un’abitazione fatiscente. Ma con il World Food Programme che negli ultimi cinque anni ha ridotto il welfare per i rifugiati da 30 a 13 dollari al mese, la crisi morde. Così, come spiega Mohamed, scappato da Homs prima dell’ennesimo bombardame­nto, i gli diventano risorsa decisiva: «Ho due maschi di 8 e 14 anni, fanno lavoretti in giro per il campo per raccoglier­e quanto serve a sopravvive­re. Nei giorni fortunati guadagnano anche cinque dollari».

Il reverendo inglese Andrew White non ha mai voluto lasciare l’Iraq. Ha forti - cato le mura della sua St. George’s Church a Baghdad, più volte presa di mira dai terroristi, e raccoglie nella missione centinaia di bambini iracheni e siriani dalle zone di guerra. È uomo di grande ironia, nonostante una malattia degenerati­va ne stia segnando il passo: «Quando il Canada ha annunciato di voler accogliere 30 mila profughi qui si è diffusa l’euforia. I bambini disegnano la bandiera canadese sui quaderni, ma la lista d’attesa è lunga. E la guerra produce ogni giorno migliaia di nuovi profughi. Serve molto più coraggio, non bastano gesti di buona volontà. Bisogna ripensare il mondo con nuovi criteri. Migliaia di bambini senza accesso a educazione e cure sono una minaccia per il nostro futuro. Per noi stessi. O lo capiamo in fretta tutti assieme, o tutti assieme siamo destinati alla rovina». Kansa è la mamma di una piccola di poche settimane che culla tra le braccia, mentre la sorellina di tre anni gioca con alcune mollette da panni su cui qualcuno ha disegnato un paio di occhi da farle sembrare bamboline di legno. Mi dice che il marito dovrebbe trovarsi in una tendopoli in Turchia. Il Canada non riesce proprio a immaginars­elo. La felicità per Kansa è un altro campo profughi dalle parti di Smirne.

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