QUANDO HO VISTO LA PRIMA BARBA HIPSTER
Nove anni rinchiusa in casa da una malattia che non le permetteva di esporsi alla luce. La ricerca di una terapia, un miglioramento insperato e la vita che ricomincia. ANNA LYNDSEY ci ha raccontato la lotta contro l’incredulità della gente, gli amici che sparivano, il marito che restava, il piacere di un caf è. E di una tenda inalmente tirata
Indossa un completo di velluto a costine color vinaccia, la gonna lunga, svasata, e un cappello coordinato. Nell’insieme, mi ricorda lo stile Holly Hobbie, quelle gurine romantiche che mi piacevano tanto quando ero bambina. Mi ha appena aperto la porta di casa, una villetta nell’Hampshire, a un’ora circa da Londra. Per alcuni secondi ci guardiamo in silenzio, immobili, come in una sorta di fermo immagine, il mio cervello che combatte con due idee inconciliabili: questa non può essere Anna, eppure non può che essere lei. Nel suo libro, La ragazza del buio, si descrive nei minimi dettagli: i capelli mossi, gli occhiali ovali, la carnagione diafana, il corpo sottile. Ma la storia che racconta, la sua, è quella di una giovane donna costretta a vivere nell’oscurità per via di una rara e gravissima intolleranza alla luce. Le istruzioni che mi erano arrivate via email confermavano la necessità di tenere lontana anche la minima fonte di illuminazione: cellulare e computer dovevano essere lasciati fuori. Mi porge la mano. Ci presentiamo. Chiedo scusa per la mia esitazione. «Lei è la prima giornalista a cui apro la porta», dice, o rendomi un’attenuante accompagnata da un sorriso. Anna Lyndsey è uno pseudonimo. Il vero nome preferisce che rimanga segreto per questioni di riservatezza. Ma, a parte questo dettaglio, tutto il resto è vero. A cominciare da quello che non può esserci scritto perché è accaduto dopo la pubblicazione.
Dopo nove anni trascorsi per lo più al buio, e dopo aver provato qualunque cosa per uscirne, è successo un fatto incredibile. La moglie di un mio amico aveva nito il training per diventare nutrizionista e cercava clienti. Le ho fatto avere i referti, le analisi, la storia completa della mia malattia. Lei ha studiato tutto con grande attenzione ed è giunta alla conclusione che il mio problema era dovuto a una gravissima intolleranza all’istamina». Così, le ha prescritto una dieta e alcuni integratori. «Lentamente ho iniziato a stare meglio. Fino al punto che, l’estate scorsa, ho cominciato a poter uscire durante il giorno. Per ora, solo quando il tempo è nuvoloso». Siamo sedute al piano terra, in soggiorno, una luce grigiastra ltra dalle nestre, le tende sono parzialmente aperte. Il suo modo di ragionare e di parlare è articolato e profondo, proprio come il suo libro, un racconto non cronologico della sua vita nell’oscurità: capitoli divisi per temi, inframmezzati da resoconti di sogni e da un catalogo di giochi mentali, uno dei suoi pochi passatempi insieme agli audiolibri e agli esercizi di Pilates quando l’aggravarsi delle sue condizioni di salute la costringeva a rinchiudersi in una stanza completamente buia della casa. La voce, quasi infantile, si fa acuta quando l’emozione o la felicità del momento prendono il sopravvento.
Èil 2005, Anna ha una vita normalmente felice, un buon lavoro, un appartamento a Londra, piani per il futuro, un danzato, Pete, che nel frattempo è diventato suo marito. Improvvisamente, lo schermo del computer comincia a darle fastidio, una sensazione di bruciore al viso che cerca di mandar via puntandosi addosso un ventilatore. Fino a che il dolore diventa intollerabile e, man mano, sempre peggio: la sensibilità alla luce si estende a tutto il corpo, neppure i vestiti riescono più a proteggerla. Quello che segue è un’alternanza tra peggioramenti e periodi di lieve miglioramento durante i quali le è consentito uscire poco prima del tramonto ma sempre coperta da strati di vestiti. Uno dei capitoli del libro è dedicato alle terapie alle quali è ricorsa, dalla medicina tradizionale alla meditazione. È una delle parti più divertenti. Anche adesso che ne parliamo, mi strappa una risata quando dice: «Ho provato tutto. Non ho fatto discriminazioni». Torniamo a parlare del presente. «Sono andata in un ca è con mio marito. È stato incredibile trovarmi in mezzo a tutte quelle persone. Ho visto la mia prima barba hipster. È molto di moda fra i giovani inglesi e ricordavo di averne letto su una rivista. Mi sono letteralmente messa a urlare: “Pete, guarda!”. Devono aver pensato che fossi un tipo piuttosto bizzarro».
Da allora, è riuscita anche ad andare a fare shopping in qualche piccolo negozio. «Nei centri commerciali l’illuminazione è troppo forte». Le chiedo che cosa abbia comprato. «Alcuni regali e lacci per le scarpe». Lo dice con un’espressione deliziata.
La stanza buia esiste ancora. «Ci torno per dare sollievo alla pelle una o due volte al giorno. Ed è lì che dormo. La di erenza è che oggi, se voglio, posso aprire le tende». Fa una lunga pausa quando le chiedo che cosa provi guardando indietro. «È come se la mia mente stesse cercando di rimuovere quel periodo. Come se stessi ricominciando la mia vita dal momento in cui si era “fermata”. Penso che il cervello tenda naturalmente a cancellare le esperienze dolorose». Dopo colazione le può capitare di fare alcuni gradini per andare di sopra e avere l’impressione di essere risucchiata indietro al tempo in cui «salire quella scala signi cava che l’unica cosa che mi attendeva era l’oscurità. L’altro giorno ho ritrovato alcuni vestiti che non mettevo da dieci anni. Li ho provati ed è stato come rindossare me stessa. Ho rimesso i piedi in un mio vecchio paio di scarpe rosa e ho avuto l’impressione di tornare indietro: all’improvviso avevo di nuovo 34 anni. “Posso essere ancora quella persona? Dovrei procurarmi abiti più adatti alla mia età?”. Tra le varie cose che ho perso, ci sono i miei trent’anni».
I n questa casa, un tempo solo di Pete, Anna si è trasferita quando le sue condizioni si sono aggravate tanto da non poter più vivere da sola. «All’epoca avevamo in programma di avere bambini. Ovviamente abbiamo dovuto rinunciare. La cosa più triste di quello che mi è successo è che probabilmente oggi è troppo tardi». Nel libro racconta di come lui le sia stato sempre vicino. «Non credo che sarei sopravvissuta senza Pete. Era come se istintivamente sapesse di che cosa avevo bisogno. Se piangevo nel cuore della notte, ripetendogli: “Non ce la faccio, non ci riesco, voglio uccidermi”, mi stringeva a sé. “No, no, no. Non voglio”. Poi faceva una battuta, diceva qualcosa di bu o, abbastanza da distrarmi dai miei piani di suicidio. In quel periodo abbiamo sviluppato l’abitudine di raccontarci storie: lui, che poteva andare fuori nel mondo, mi descriveva le sue esperienze così da darmi la sensazione di averlo accompagnato. Mentre io cercavo di trasformare i dettagli più insigni canti della mia noiosissima vita in qualcosa che avesse un minimo di interesse. Una volta gli raccontai con grande entusiasmo di essere riuscita a pulire il bagno. Sono nella posizione di dovergli la vita. Non so che cosa signi chi per il nostro futuro. Al momento, ci godiamo un po’ di normalità».
P er quanto terribile, essere costretta a vivere al buio era solo una parte del problema. «La maggioranza delle persone non riesce a credere che l’ipersensibilità alla luce sia un qualcosa di reale. Ti dicono: “Perché non indossi più vestiti?”, “Perché non trovi un bravo psicologo?”. Cercano di scrutarti dentro e scoprire qual è il problema. Una analista, Reiki, mi chiese: “Pensa che la sua relazione possa continuare solo a condizione di essere malata?”. Se c’è una lezione che ho imparato è quanto sia importante credere alle persone e alle loro storie. Per quanto possano sembrare stravaganti, è della loro vita che ti stanno parlando». Anna ha imparato tantissime altre cose, sia minuscole sia enormi. Per esempio, che ascoltare audiolibri di storie sui serial killer al buio non è una buona idea. E che scrivere non solo ha contribuito a salvarle la vita, ma è anche quello che vuole continuare a fare. Ha scoperto che sposarsi in dicembre al tramonto in una chiesa illuminata solo da candele, magari non è comune, ma è molto scenogra co. Che le persone hanno diversi livelli di tolleranza alla stranezza. «C’è chi non lo vive come un problema, altri che proprio non ce la fanno e scappano. Per questo, certi amici che pensavi ci sarebbero sempre stati non reggono. Il dolore che si prova quando succede può essere devastante». Però, poi, accade che nascano relazioni dove mai avresti immaginato. «E che, quindi, avere una visione idealistica dell’amicizia non è poi così sbagliato». Si è accorta dell’esistenza di meraviglie che la maggior parte di noi non conosce, «come quelle minime variazioni di luce al tramonto e all’alba, i colori che cambiano e il sole che si muove intorno alla casa». E ha capito qualcosa che dovrebbe farci ri ettere tutti: «Siamo in controllo della nostre vite solo in parte. Qualcosa può arrivare a sconvolgere i tuoi piani senza che tu possa farci nulla. Eppure, quando sei ormai certa che la situazione non migliorerà, la realtà può ricomporsi in qualche modo da sola. Se qualcuno mi avesse detto: “Ecco come saranno i prossimi anni della tua vita”, sarei stata certa di non farcela. Se non avessi ri utato di arrendermi, oggi non potrei essere qui a vivere questo miglioramento inaspettato».