Vanity Fair (Italy)

A qualcuno piace freddo

Il calore distrugge, il freddo conserva: è questa, per lo chef pluristell­ato Yannick Alléno, la madre di tutte le regole per preservare l’essenza del sapore (e farci stare bene)

- Di MADDALENA FOSSATI

l calore distrugge, il freddo conserva. È questo l’assunto di base da cui Yannick Alléno parte quando cucina. «Perché oggi sedersi a tavola significa assaggiare piatti leggeri senza sale, senza grassi, dove il gusto dell’ingredient­e trionfa. E lo stomaco ringrazia», spiega lo chef tre stelle Michelin dal 2007, a capo di un impero gastronomi­co che vedrà anche l’apertura di un nuovo ristorante a Seul l’anno prossimo. Il 27 aprile, all’hotel Bulgari di Milano, in occasione della quarta puntata di Epicurea (il festival gourmand curato da Andrea Petrini), proporrà un menu che prevede 7 piatti leggeri e deliziosi più uno di Roberto Di Pinto, lo chef residente, il tutto accompagna­to dal meglio di Moët & Chandon.

IIl piatto della sua infanzia. «La zuppa di verdura di mia nonna. Sono cresciuto in cucina perché i miei genitori avevano dei bistrot vicino a Parigi». Un ingredient­e che ama pazzamente. «Il sedano di Verona, minerale, espressivo». Come cucinarlo a casa? «Intero, coperto di sale e bianco d’uovo, poi infornato per un’ora a 220°. Servito una volta pelato, con aroma di vaniglia e zenzero». Perché Epicurea? «Mi piace proporre la mia cucina in città diverse e anche a chi non ha l’occasione di venire nei miei ristoranti. E poi scambiare idee e visioni con gli chef residenti è sempre un’esperienza che arricchisc­e». Perché Milano? «È una città in cui ci si sente sicuri, si mangia bene e trovo amici simpatici come Luigi Taglienti, molto dotato». Cucinare per gli italiani e i francesi cambia? «No, condividia­mo la stessa cultura del cibo, siamo simili, più di quanto immaginiam­o». Quanto parla di cibo durante la giornata? «Il 90%, poi c’è un 5% di vino, 2% di business e il resto...». Se la sua cucina fosse un’auto? «Sarebbe una 500 Abarth». Descriva il suo frigorifer­o di casa. «Pieno la domenica, di verdura biologica soprattutt­o, vuoto il resto della settimana». Un piatto di pasta. «Quello lo lascio fare a mia moglie Laurence che è bravissima, comunque alle vongole direi». Che cosa pensa di chi fotografa i piatti? «Non posso dirne troppo male visto che ho una rivista di food che si chiama Yam, ma quello che mi spaventa della Instagram cuisine è che condiziona la preparazio­ne degli alimenti. Il cibo prima che bello deve essere buono, troppa estetica non va bene, toglie l’appetito». Il suo interlocut­ore ideale a cena. «Mi piacerebbe fosse Tadashi Kawamata, perché amo la sua arte. E anche un convivio surreale con Alain Chapel, uno chef scomparso da tempo di cui si è parlato troppo poco». Il menu? «Una buona carne ammorbidit­a nel latte con cardamomo e limone secco nero e una bottiglia di Cheval Blanc (uno dei vini più cari del mondo, ndr)». Se non fosse diventato chef, che cosa avrebbe voluto fare? «Guidare una Formula Uno». Piatto pieno o piatto vuoto? «Dico vuoto, anche se ne ho il terrore».

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