UN INCUBO SENZA FINE
La notte Sue Klebold sogna che suo figlio l’abbraccia, ma le sue mani sono lame, la feriscono, eppure lei non vuole fuggire. Mentre a Orlando un uomo ha ucciso 49 ragazzi inermi, la madre di uno dei due responsabili della STRAGE DI COLUMBINE racconta 17 a
ylan Klebold aveva 17 anni quando, il 20 aprile 1999, con l’amico Eric Harris entrò armato di tutto punto alla Columbine High School, in Colorado, e uccise 12 studenti e un professore prima di togliersi la vita con un colpo di fucile. Di fronte ai 49 morti dell’ultima strage, quella compiuta domenica 12 giugno a Orlando da Omar Mateen, Columbine è completamente diversa. Eppure, la prima cosa cui tutti in America pensano davanti a un assassinio di massa e quando si riapre il discorso sulle armi da fuoco è proprio Columbine, la strage di cui abbiamo il maggior numero di immagini e ben due film – Bowling a Columbine di Michael Moore ed Elephant di Gus Van Sant – e che occupa un posto particolare nella memoria collettiva. Lo sa bene Sue Klebold, la mamma di Dylan, che incontro in un albergo di Denver e che dopo 58 minuti di intervista fa un gesto in cui ogni madre può riconoscersi: mi chiede se voglio vedere le foto del figlio e senza aspettare la risposta da un piccolo portafoglio nero tira fuori vecchie immagini ingiallite di un bambino che avrà sì e no 5 anni, faccia paffuta, capelli biondi, calzoncini corti. Come può un bambino normale, cresciuto in una famiglia che lo ha amato e accudito, trasformarsi in uno stragista è solo uno dei temi che la signora Klebold affronta nel libro Mio figlio. Gli altri riguardano il senso di colpa, il bullismo, la depressione negli adolescenti... «Spesso gli adolescenti si nascondono dietro una maschera, e per quanto noi crediamo di conoscerli ciò che sappiamo di loro è solo la minima parte», racconta.Eaggiunge:«Avoltel’amorenonè abbastanza». Immagino sia una domanda che si è fatta anche lei in questi anni: ci sono stati segnali che ha trascurato, cose che da mamma avrebbe potuto fare diversamente? «La colpa più grande che mi attribuisco è non aver parlato abbastanza con lui. Gli facevo domande, ma erano conversazioni superficiali. Avrei dovuto approfondire. Ho parlato con uno psichiatra, e lui