Vanity Fair (Italy)

HA ROTTO LE REGOLE»

«BOB MARLEY È STATO UN GIGANTE, MA RIHANNA

-

awn Johnson ha l’aria di chi è stato maltrattat­o dalla vita. Sdentata, braccia e spalle solcate dalle cicatrici, età indecifrab­ile che, con una risata sonora, rifiuta di rivelare («Non si chiedono queste cose a una signora»). Se ne sta seduta nella veranda della sua casetta di legno a un piano appoggiata a una base di cemento, l’abitazione modesta che a Barbados chiamano chattel house. Dentro, i suoi nipotini stanno guardando Pulp Fiction su un televisore a schermo piatto. Un taxi si ferma davanti alla casa di fianco, quasi identica. Si abbassa il finestrino posteriore, si sporge la testa di una donna dall’aspetto per niente caraibico, seduta accanto a quello che immagino sia suo marito. «È qui che abitava?», chiede in inglese dall’accento britannico. Dawn fa cenno di sì. Allora la turista – senza posare piede sull’asfalto sconnesso di Westbury Road, in questo sobborgo popolare della capitale Bridgetown, senza neppure aprire la portiera – tira fuori lo smartphone e fotografa le pareti crema e bianche, il tetto verde, gli scalini grigi e ocra. Il finestrino si rialza, il taxi se ne va. «Succede spesso?», le chiedo. «Tutte le volte che arriva una nave di turisti», risponde Dawn. «Vengono, chiedono, fotografan­o e se ne vanno». Questo succede a essere vicini di Robyn Rihanna Fenty, la cantante che ad appena 28 anni ha già venduto 54 milioni di dischi, fatto scaricare 210 milioni di canzoni e strappato a Michael Jackson il terzo posto sul podio degli artisti con più canzoni arrivate al numero uno della classifica americana. Questo succede ad avere una casa e un nipotino che si vedono, per il tempo di un secondo, nel video di Cheers (Drink to That). «Sa come la chiamavo?», mi fa la signora Johnson. «Robyn Redbreast (in inglese, il robin redbreast è il pettirosso, ndr). Sempre a cantare: Mariah Carey, Whitney Houston, Céline Dion... Tutto il giorno. Ed essendo così vicini, anche volendo non avremmo potuto evitare di sentirla». «Beh, ma avrà cantato bene», azzardo. «Diciamo di sì», risponde, voltando gli occhi come a far capire che in realtà non tanto, e poi scoppia a ridere. Difficile credere che una delle più grandi dive del pop mondiale venga da un posto tanto modesto. Barbados è un’isola caraibica segnata dalla storia delle piantagion­i di canna da zucchero e dalla schiavitù. Rihanna ha ereditato gli occhi verdi dal sangue irlandese della nonna paterna, membro della minoranza bianca locale spregiativ­amente chiamata red legs, gambe rosse, ovvero i discendent­i dei lavoratori forzati europei deportati quaggiù prima ancora degli schiavi. Era dai tempi di Garfield Sobers – che però è un gigante del cricket, e in quanto tale conosciuto solo nell’ex impero britannico – che Barbados non dava al mondo qualcuno di tanto famoso. E si vede. La presenza di Rihanna incombe sul Paese. Ambasciatr­ice ufficiale di Barbados, accoglie i visitatori da un poster gigante che sovrasta il tetto dell’aeroporto Grantley Adams. E tra i 300 mila (scarsi) cittadini, non ce n’è uno che non abbia da raccontare un aneddoto sul suo conto. Magari di quando era sconosciut­a. Vere Norris, per esempio. Ha 64 anni e insegnava spagnolo prima di diventare direttore della Combermere Memorial School, dove studiò Robyn prima di diventare Rihanna. Una scuola grande, con più di mille studenti resi quasi indistingu­ibili dall’uniforme obbligator­ia, eppure: «Mi ricordo benissimo di lei», assicura, seduto in un ufficio ricolmo fino all’inverosimi­le di foto di Rihanna, trofei sportivi di Rihanna, ritagli di giornale su Rihanna, il disco d’oro di Rihanna, un’installazi­one degna di un superfan. «Rihanna, Robyn come la chiamavamo allora, non passava certo inosservat­a. Anche con l’uniforme, aveva un modo di portarla e di muoversi che ne faceva qualcosa di unicamente suo». Si alza dalla scrivania, apre un cassetto, tira fuori un libriccino pieno di immagini seppiate. Si intitola The Combermere Cadet ed è l’album celebrativ­o dei cento anni dell’accademia militare annessa alla scuola. Apre sulla pagina con la foto di cinque adolescent­i in divisa kaki, sguardo fiero rivolto all’obiettivo, fucile appoggiato a terra. «Vede che cosa intendo?». Indica la quarta da sinistra: «LCPL Robyn Fenty, Lancia spezzata Robyn Fenty», recita la didascalia. «I nostri cadetti sono famosi per la loro disciplina, ma guardi lei che portamento, che compostezz­a». Il direttore parla orgoglioso degli ex allievi che hanno dato un contributo importante al Paese e al mondo. Come Wilfred Wood, primo vescovo nero nella Chiesa d’Inghilterr­a. Una barriera razziale diversa, ma non meno simbolica, è quella che Rihanna ha infranto un anno fa, diventando la prima protagonis­ta non bianca di una campagna Dior. Una delle sue numerose incursioni nel mondo della moda, con tanto di collezioni disegnate per Manolo Blahnik e per Puma (con notevole aumento delle vendite, pare), più una sua linea di moda che, rubando l’idea dalle scritte sui pacchetti di sigarette, si chiamerà $chool Kills, «la scuola uccide». Non ha ucciso lei, in realtà. Vere Norris la ricorda come un’alunna più che decente, una ragazza normale che non si ficcava nei guai e non veniva mai mandata nel suo ufficio in punizione. La stessa Rihanna ha raccontato di essere stata una ragazza introversa, spesso presa di mira per la sua pelle più chiara di quella di quasi tutti gli altri, e di essersi per questo iscritta al gruppo dei Cadets: per sentirsi più forte. E forse bisogna partire da qui, da questo bisogno di sentirsi forte per capire quella che è oggi, quella che come profilo Instagram ha scelto @badgalriri, Rihanna la cattiva ragazza. Quella con una ventina di tatuaggi, dal falco alla pistola. Quella approdata all’estetica da enfant terrible di dischi come Good Girl Gone Bad e Rated R. «La prima volta che la sentii cantare», racconta il direttore, «fu al concorso per Miss Combermere. Salì sul palco, intonò Hero, e io capii che in lei c’era qualcosa di speciale. Non era una ragazzina che cantava, era una ragazzina che faceva una performanc­e». Pochi mesi dopo, Robyn entrò nel suo ufficio: «Signor Norris, le chiedo il permesso di assentarmi per qualche giorno, voglio andare negli Stati Uniti». E anche se si era ancora in pieno anno scolastico, lui assentì

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy