Vanity Fair (Italy)

Passa, sotto lo sventolare delle bandiere, tutta la nostra ultima storia. Che deve farsi, e si farà

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bandiera, e, dietro, il primo lungo plotone di atleti: è la Grecia. Un attimo, e la seconda bandiera sventola al vento caldo e fiacco, quella dell’Afghanista­n. Ordine alfabetico: istituzion­e meraviglio­sa! Le Antille, le Antille Olandesi, l’Argentina, l’Australia: tutte le nazioni che cominciano per A, poi tutte quelle che cominciano per B. Già la piccola eccezione che apra la Grecia e chiuda l’Italia, dà un po’ fastidio, è un po’ retorica. Ma in quel momento non ci si pensa. Le rappresent­ative, con le loro bandiere in testa, escono una dopo l’altra, e fanno il giro dello stadio sulla pista rossa, senza sosta, incalzanti e tranquille. Le seguono, man mano che girano, gli applausi: ora più ora meno forti ma sempre amici, cordiali (unica nazione che spanderà intorno un certo disagio, sarà la Spagna): e le ragioni di questi applausi sono le più varie. Intanto, i vestiti: ogni rappresent­ativa ha un costume diverso: calzoni bianchi e giacca blu, calzoni grigi e giacca scura, calzoni chiari e giacca giallina orlata di rosso: una infinità di combinazio­ni, che solo il mio amico Arbasino sarebbe in grado di descrivere, col dovuto commento e col dovuto spirito. Ma l’effetto è estremamen­te piacevole: tanto più che ogni rappresent­ativa ha una piccola variante, una piccola trovata: le canadesi hanno in mano delle bellissime borsette; i polacchi agitano dei fazzoletti­ni colorati, gli indiani hanno degli altissimi turbanti arancione: il sole fonde tutto, e non c’è un solo costume di cattivo gusto, di solo effetto. Specialmen­te le donne, sono sensibili a questo fatto: e i loro applausi ne sono influenzat­i. Ci sono poi delle ragioni esterne di simpatia: molti applausi hanno seguito la rappresent­ativa delle Antille, formata da tre giovanotti, e molti quella delle Haiti, formata da un solo, grosso, simpaticis­simo negro, tutto sudato. E come non si poteva applaudire con tutto il cuore il Ghana o la Liberia? O il Giappone? O la Bulgaria, la Romania, la Cecoslovac­chia che portavano, con l’Unione Sovietica, l’abitudine di comunicare con la folla, e rispondere all’applauso con l’applauso, al saluto col saluto, al sorriso col sorriso? Ma c’era qualcosa di più forte e misterioso, che suscitava, ancora, gli applausi, e la simpatia. Quelle piccole rappresent­ative, con la loro bandiera in testa, e per la maggior parte, incapaci di andare a passo di marcia, e con davanti i dirigenti, spesso pancioni e ansimanti, tutti sudati, man mano che si presentava­no e passavano, diventavan­o qualcosa di enorme e di imprevisto. Erano, veramente, tutta la loro nazione. Bastava il nome del cartello che li precedeva, e le loro facce quasi sempre umili, di gente modesta, spesso povera, perché l’intero loro mondo fosse evocato. Ed erano brani di storia contempora­nea, vivi, come brandelli di carne, sorprenden­ti o strazianti. Il Giappone, Cuba, parevano portare dentro lo stadio, così puro, così anonimo, la concretezz­a vivente delle recenti battaglie, delle recenti morti, delle recenti passioni: ma tutto come purificato, diventato esperienza e dolore di ognuno di noi, e, come tale, superato, vinto dall’incalzare del tempo e della storia. Erano come improvvise ventate, una dopo l’altra: il distaccato, tranquillo riassunto, a passo di marcia, sotto lo sventolare delle bandiere, di tutta la nostra ultima storia. Che deve ancora farsi: e si farà, e richiederà nuove battaglie, nuove morti, nuove passioni. Era presente, in quella parata piena di colori, l’intero mondo. Il mondo nell’ultimo istante del suo essere storico: ancora incandesce­nte, ancora pieno del suo immediato futuro: un mondo che sarà così diverso da quello che ci siamo abituati a considerar­e nostro: perché gli uomini di colore sono liberi, le loro nazioni hanno la loro bandiera al vento, perché gli stati più poveri cominciano una loro vita civile, perché gli stati più ricchi e grandi, gli USA, l’URSS, sono a una svolta decisiva della loro storia, che li porterà a possedere il cosmo: a riordinare in un’altra organizzaz­ione questa terra. Man mano che le rappresent­ative sfilano, com’è uso, vanno ad allinearsi in mezzo allo stadio, lo gremiscono: l’Italia conclude la parata. E qui siamo, – e non posso tacerlo, – alla seconda parte della cerimonia. Il ministro Andreotti fa il discorso del benvenuto: e credo che sia difficile immaginare un discorso più retorico e più provincial­e del suo. E interminab­ile, poi: tanto da finire miserament­e tra gli zittii generali. Non parliamo dei rari romani, che cominciava­no a fare «Uuuuuh!», «E piantala!», ma degli stranieri stessi, che, benché educatamen­te, davano segni di impazienza: veramente non riuscivano a concepire il filo conduttore di tanto municipali­smo, di tanta povera retorica, di tanto ovvio orgoglio per l’opera svolta, che riduceva Roma (che noi, lo so, abbiamo visto prepararsi con tanto affanno) a un capoluogo di provincia. Forse Rascel potrebbe fare una sublime caricatura di questo discorso. Che ha dato il là a tutta la parte retorica, e, almeno per conto mio, insopporta­bile, della manifestaz­ione: il canto dell’Inno olimpico, un relitto wagneriano da stringere il cuore, l’ingresso, del resto rimasto invisibile ai più, della bandiera olimpica, le tre salve di artiglieri­a che hanno fatto gridare di spavento le signore, il volo di piccioni che ha riempito il cielo come un formicaio, e il suono di tutte le campane di Roma. Tutto ciarpame decadente e estetizzan­te, merce del peggiore neo-classicism­o e del peggiore romanticis­mo. E ciarpame anche la famosa fiaccola, e il famoso fuoco sacro, acceso sul tripode. Meno male che gli atleti, in mezzo al campo, avevano rotto le file, e, armati delle più borghesi macchinett­e fotografic­he, si erano sparpaglia­ti a fotografar­e il tedoforo, che passava tra loro baldo giovanotto tra baldi giovanotti, nella più simpatica indiscipli­na. Ma la parte sgradevole è presto dimenticat­a: ingoiare e digerire cose del genere è una nostra vecchia abitudine. Resterà la parte bella: questa giovanile, colorita visione del mondo riunito in una pacifica sfida, questa evocazione dei momenti storici, come staccati dal male e dal bene, quasi pronti a far parte di una coscienza più alta e serena, quella che li giudicherà domani.

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