Vanity Fair (Italy)

PIÙ AUMENTAVAN­O L’OFFERTA»

ANDAI ALL’ISOLA DEI FAMOSI PERCHÉ MIA FIGLIA MIRNA VOLEVA UNA CASA. PIÙ IO DICEVO DI NO,

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uesta mattina ho preso la bici e ho fatto sedere mia moglie Pina sulla canna. Fuori di casa c’era un tipo sulla quarantina con il cellulare in mano: “Che cosa fa qui?”, gli ho chiesto. Mi ha risposto: “Sono venuto dal Piemonte per fotografar­e la leggenda”».

La leggenda, ovvero Raoul Casadei, ci ha appena accolto in casa sua. Ieri notte ha tirato tardi: spaghetti ai frutti di mare, tonno e vino. Lo produce lui. Come pure le verdure «biologiche» dell’orto, che distribuis­ce a tutti i familiari del «recinto», il giardino su cui a acciano tre villette. In una vivono lui, la Pina, la glia maggiore Carolina e il compagno, in un’altra Mirna, l’altra glia, il suo compagno e il loro bambino, Manuel, di 5 anni. Nella terza, l’ultimogeni­to Mirko, la compagna Sabrina, i gli Kim e Asia che a ne 2013, diventando a 19 anni mamma di Noa, ha reso Mirko nonno a 41 e Raoul bisnonno a 73. In bocca la pipa. Al muro, esposta con le altre, quella con le ali che, nel 2000, ha dato al

glio per sancire il passaggio di testimone.

Mirko è il terzo della famiglia a portare avanti l’orchestra di liscio più famo sa d’Italia. E più longeva: nel 2018 saranno 90 anni. Una storia che verrà celebrata tra il 21 e il 24 luglio, con una straordina­ria reunion della formazione anni Settanta (e il ritorno di Raoul sul palco), nella prima Notte del liscio che, in realtà, sono 4 giorni di musica in varie località della Romagna. A fondarla era stato lo zio di Raoul, Secondo. Poi, negli anni Sessanta, anche lui aveva cominciato a suonare e comporre, e ogni tanto sparigliav­a con qualche «canzoncina» troppo all’avanguardi­a per i tempi. Come Io cerco la morosa che conteneva la parola «verginella». «Mio zio non ne voleva sapere». Ma Renzo Arbore prese a trasmetter­la nel programma radio Alto gradimento e il nome Casadei arrivò in tutt’Italia. «Quando lo zio è morto, nel 1971, ho dovuto lasciare il mio lavoro di maestro elementare per portare avanti l’orchestra. Ho scritto una canzoncina che si intitolava Ciao mare e sono andato a proporla in Rai. Non dimentiche­rò mai la scena: c’erano il mio produttore – Roberto Dané, lo stesso di De André, gli Alunni del sole e altri – e il capo dei discogra ci, tutti a far casino perché avremmo voluto portarla a Sanremo. Questo dirigente, Pierluigi Tabasso, ci ha detto: “È una cosa di campagna, ruspante, non è adatta al festival”. Sono tornato a casa incazzato. La settimana dopo sono andato a parlare con Vittorio Salvetti per portarla al Festivalba­r». E l’ha spuntata. «Chi faceva più ascolti ai juke-box vinceva. Quell’anno c’erano molti nomi grossi, come Elton John, i Bee Gees. Un giorno, Salvetti mi chiama: “Se vinci, sono rovinato”. E alla ne mi ha piazzato terzo». Sta dicendo che, in realtà, avrebbe vinto lei? «Non lo so. Ma il liscio in quel periodo faceva tendenza. Per dire, Romagna mia, che era stata scritta da mio zio nel 1954, è diventata popolare vent’anni dopo. Per raccontarl­e tutto quello che abbiamo fatto ci vorrebbe un mese: il Disco per l’estate, il Cantagiro. Nel 1974 ho scritto La mazurka di periferia, due anni dopo abbiamo seguito il Giro d’Italia. Ventun tappe, viaggiavam­o su una nave costruita sul telaio di un tir. Ogni giorno, con noi, c’erano quattro, cinque ospiti: Pippo Baudo, Mia Martini, Loredana Bertè, quella matta. Veniva a trovarmi alle serate, un’amica vera. Anche con i Pooh ci incrociava­mo spesso. Quello con quei capelli così, come si chiama? Red (Canzian, ndr) dava la caccia alla mia cantante, la Rita. E poi c’erano quelli di campagna, i Cugini. Ogni tanto il pomeriggio si faceva una partita a pallone. E poi, le bevute, le mangiate. Ma sa qual è stato il vero epicentro del nostro successo?». La Romagna? «Milano, Pavia. La discoteca Le rotonde di Garlasco era il locale più moderno d’Italia. Ci trattavano come divi, il mio discogra co vendeva decine di migliaia di copie ancora prima che le avessimo incise. Guadagnò un mucchio di soldi». Anche lei, immagino. «I gestori si facevano concorrenz­a e io alzavo i prezzi di continuo. Mi odiavano perché facevo di testa mia. Iniziavo a suonare solo quando vedevo che il clima era giusto e smettevo verso mezzanotte quando la gente cominciava ad andarsene. “Dovreste continuare no alle due del mattino”. E io: “Allora non vengo più”. Ho guadagnato tanto ma ho speso tutto». Alla ne degli anni Settanta costruì la Ca’ del liscio, un mega locale vicino Ravenna. Ha detto di aver speso otto miliardi di lire. «Tra imbrogli e ricatti mi hanno mangiato non so quanto. Intorno avrebbero dovuto esserci impianti sportivi, campi da tennis, piscine. Doveva essere un centro aperto 24 ore su 24, divenne un’incompiuta». Suo glio è subentrato a capo dell’orchestra nel 2000. Ma lei aveva lasciato il palco già nel 1980, a 43 anni. Perché? «Ero stanco e anche un po’ malato. Sempre in giro, grappa, whisky, tranquilla­nti. Facevo più di 300 concerti all’anno, ho suonato ovunque, aie, campi di grano dopo la mietitura, gondole. Siccome ero il capo dovevo far tutto: prendere i contatti con i proprietar­i dei locali, parlare con la gente, i giornalist­i. E ogni notte tornavo a casa per vedere mia moglie, i gli. In pullman i musicisti dormivano, io scrivevo le canzoni nuove. Svegliavo il pianista: “Dai, che mi è venuta un’idea”. Lui s’incazzava. Svegliavo un altro. Ero attivissim­o. Oggi si dice iperattivo».

Raoul arrivava, senza chiavi. Bussava. Sua madre, Adelina, gli faceva il ca è, lui le raccontava la serata. Poi andava dalla moglie: «Rompevo le scatole a tutti». Di quel periodo Mirko ricorda soprattutt­o le attese. «Veniva in camera alle quattro, cinque del mattino, portava sempre un regalino a me

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