NON SPLENDE
UN ANNO DI RAGGI, MA IL SOLE
Stiamo scrivendo la storia. Sarà dura, lo sappiamo come è Roma. Ma più è dura, più sarà bello fare tutto quello che ci siamo prefissi di fare». Un anno fa – era il 19 giugno 2016 – Virginia Raggi diventava sindaco della capitale, archiviando la breve parentesi di Ignazio Marino e battendo con il 67 per cento l’avversario Roberto Giachetti. «Ha vinto l’onestà», gridavano i militanti del M5S scesi in piazza a festeggiare la vittoria, arrivata sull’onda del disgusto per la classe dirigente romana, compromessa e inadeguata, incapace di riformare una città irriformabile. Una città in cui, va detto, anche i suoi cittadini hanno responsabilità enormi (troppo comodo prendersela solo con i politici; davvero la cosiddetta società civile è meglio delle élite?).
Durante il suo primo anno di governo la Raggi più che fare la storia si è limitata a scrivere una cronaca, peraltro modesta; in dodici mesi sono emersi tutti i problemi che il M5S ha con la selezione del personale politico. A renderli evidenti c’è la lunga serie di dimissioni nella giunta e in Comune. Carla Raineri, magistrato, diventa capo di gabinetto dopo lo spostamento di Daniele Frongia, braccio destro della Raggi in campagna elettorale, ma la sua nomina viene considerata irregolare e si dimette dopo un parere dell’Anac, l’Autorità anticorruzione. Marcello Minenna, assessore al Bilancio, lascia l’incarico, per spirito di solidarietà verso Raineri. Raffaele De Dominicis, nuovo assessore al Bilancio, si dimette prima della nomina perché indagato per abuso d’ufficio. Stefano Fermante, ragioniere generale del Campidoglio, rassegna le sue dimissioni lo scorso settembre. Paola Muraro, assessore all’Ambiente, si dimette dopo aver ricevuto un avviso di garanzia per reati ambientali quando era consulente dell’Ama. Raffaele Marra, stretto consigliere della Raggi e capo del personale del Campidoglio, viene arrestato con l’accusa di corruzione. Di questa girandola di nomine, dimissioni e nuove nomine c’è una traccia piuttosto evidente nelle delibere. Il Messaggero ha calcolato che in dieci mesi l’amministrazione Raggi ha licenziato 241 delibere in 67 sedute di giunta e quasi un terzo dei provvedimenti, 72, arriva al dipartimento Risorse umane, cioè quello dedicato al personale del Comune (per la cronaca, Gianni Alemanno in 49 sedute di giunta tra il 2008 e il 2009 sfornò 453 delibere, mentre Marino, predecessore della Raggi, si è fermato a 285 in cinquanta riunioni). Non c’è niente di storico nel nominare collaboratori che poi devono essere cambiati come se fossero camicie. Ma anche il resto dell’amministrazione è ben poca cosa. La città, che ti aggredisce appena esci dalla stazione Termini, immersa nel degrado, è rimasta la stessa di prima: sporca, disfunzionale, disorganizzata, invivibile. C’è il sudicio per strada e i trasporti pubblici – un indicatore serio per valutare la civiltà di una città – sono un colabrodo. Ci sono i topi e le cronache cittadine sono piene di lamentele e articoli su persone finite all’ospedale per morsi di ratti.
La Raggi ha naturalmente ereditato questa situazione, a partire dai 13 miliardi di debito del Comune, non l’ha creata, e fa sorridere che chi ha amministrato la città prima di lei (centrodestra, centrosinistra) oggi sia il primo ad alzare il ditino. Ma la sindaca ha fatto scelte che definire discutibili è un eufemismo, come quella di cavalcare la feroce protesta dei tassisti contro Uber a febbraio. Una decisione rappresentativa delle contraddizioni del M5S, che teorizza la disintermediazione e poi scende in piazza al fianco delle lobby o delle microlobby, come dimostra il nuovo regolamento del commercio approvato nottetempo la settimana scorsa. Un regolamento fatto apposta per mantenere intatto lo strapotere dei Tredicine, famiglia proprietaria di bancarelle e dei celebri camion-bar piazzati ovunque.
Alla fine non resta che condividere la malinconia di Ennio Flaiano e rassegnarsi a ciò che non funziona? La tentazione c’è. «Altri orizzonti, altri cieli meno fastosi ma più nostri ci attendono. Trovare sotto quei cieli la forza di andare avanti, rifiutando il cinismo che le vecchie pietre ci hanno insegnato; non avendo altro da proporci, per anni e anni, che l’elogio della sopportazione».