SE MI GUARDI, TI AMO
Il duo più apprezzato del teatro italiano, RICCI/FORTE, arriva a Spoleto con uno spettacolo che parla di sentimenti, vanità e della condanna di «essere» sotto lo sguardo degli altri
Odiano essere definiti enfant terrible, ed è anche per questo che si rifiutano di fornire l’età. A ricostruzione di curriculum – l’Accademia prima, poi gli studi a New York, la Tv e soprattutto il teatro dai tempi di Troia’s Discount (2006) – si piazzano fra i 40 e i 50. Altro vezzo: come duo teatrale si vogliono minuscoli: ricci/forte. Nella realtà, sono Stefano Ricci e Gianni Forte. Il secondo scrive e vive a Parigi. Il primo, anche regista, è qui a Roma. A parlarci del Troilo vs Cressida che porteranno al Festival dei Due Mondi di Spoleto e che prende spunto da Shakespeare per mettere in scena un «falò delle vanità», con una classe scolastica di giovani, una lavagna che proietta la scultura di uno «scorticato», corpi che diventano bianchi come fantasmi.
A teatro spesso voi partite da un riferimento classico, anche adesso con Troilo vs Cressida. «Creare un ponte con il passato è un modo per guardare al futuro, a che cosa potremmo fare per cercare di evolverci». Che cosa accomuna l’amore di Troilo per una Cressida che poi lo tradisce al mondo di oggi? «Il discorso sulla vanità e sul fatto che il valore di una persona sono altri che glielo attribuiscono. Troilo si innamora perché proietta su Cressida le sue aspettative. E lei si lascia convincere che quello sia il suo oggetto amoroso. Non c’è mai una congiunzione, per questo fra i loro nomi c’è un “vs”: sono tutti “contro”, ognuno è solo con se stesso. Invece, tanto più ci avviciniamo al vero oggetto dell’amore, tanto più comprendiamo noi stessi». Ma forse è l’essenza dell’amore proiettare noi stessi sull’altro. «No, io cerco l’altro da me per quello che è. È rischioso, ma necessario. Non a caso le relazioni d’amicizia o sentimentali durano l’arco di una stagione: ci accontentiamo di un’immagine e non dell’essenza».
Se ci accontentiamo dell’immagine, la fedeltà ha senso? «Fedeltà a che cosa? All’immagine che ho di te in questo momento, ma se poi tu cambi che succede? Chi siamo noi se non siamo qualcosa sotto lo sguardo dell’altro?». Mi dia una risposta. «Non c’è. Viviamo perché lo sguardo di qualcuno ci veda per come siamo». Gli sguardi oggi passano spesso attraverso uno schermo: smartphone, foto, video... «Anche ai nostri spettacoli si arriva per testimoniare ad altri di esserci, senza vivere ciò che avviene in scena, non rendendosi conto che lì c’è qualcuno di vero, uomini e donne. È la sindrome dell’archivista: il bisogno continuo di fotografare. Si raccolgono cose, si fissano momenti: ma a che scopo? Non c’è crescita». Significa che vogliamo rimanere «piccoli»? «C’è una mancanza di responsabilità nel non voler crescere. Essere sempre connesso a un ipotetico mondo globale è una dipendenza che ti allontana da quello che sei. Il bisogno di immagazzinare è troppo forte, come se la memoria personale non fosse sufficiente: devo dirlo agli altri perché sono loro che attribuiscono un valore. Dopo l’attentato di Manchester, mi ha sconcertato vedere i video della fuga: perché devi diventare reporter di una tragedia? Non hai più gli strumenti per lasciare le tue impronte personali, allora esisti attraverso la testimonianza, tutti diventano cronisti di qualcosa». Di chi la responsabilità? «Genitori distratti che abbandonano i figli con i loro strumenti. Noi siamo cresciuti con il telefono Sirio, senza cellulare, e capivamo che il valore reale era nel confronto diretto con gli altri, non nel reportage. Loro hanno bisogno di sentirsi approvati attraverso questo baratto di immagini: io sono qui e ti mando qualcosa che lo testimonia». Il vostro pubblico è giovane? «All’inizio eravamo in circuiti più alternativi. Adesso il pubblico è più adulto. E ha una voglia di mettersi in gioco che i giovani non hanno». Voi spesso mostrate nudi. Come reagiscono gli attori che si devono spogliare? «Si crea un rapporto di fiducia. Ma spogliarsi non è la conditio. Lo facciamo perché raccontiamo anche attraverso il corpo e vedere i muscoli, lo sforzo sotto il costume, a volte ci sembra più interessante». Avete iniziato entrambi come attori: perché non più? «Ho avuto la fortuna di avere come insegnanti Luca Ronconi e Marisa Fabbri. Ma poi non ho incontrato altri che mi facessero crescere. Invece, costruire qualcosa con la scrittura e con la regia racconta meglio quello che voglio esprimere. E poi nell’esporsi davanti a una platea ci vuole un coraggio che io non ho». In agosto, al Macerata Opera Festival, debutterete nella lirica con Turandot. «C’è una visione differente, non una semplice apparecchiatura per i cantanti. Togliamo l’atmosfera cinese e troviamo la fiaba di una donna che non vuole diventare adulta. Io della mia età sono contento, non vorrei 20 anni di meno. Ma tanti hanno paura di crescere. E questo è Turandot: una donna adulta che dentro è una bambina di 10 anni». C’è quindi una somiglianza con Cressida? «C’è una comunanza nell’irresponsabilità. In Turandot c’è una donna cresciuta che non vuole uscire nel mondo reale per paura. In TroilovsCressida abbiamo fatto un binario parallelo fra Shakespeare e Peter Pan: alla base di entrambi c’è questo bisogno attraverso l’immagine di restare adolescenti. Abbiamo lavorato con giovanissimi appena usciti dalla scuola di Emma Dante: è importante perché dipenderà da loro come si costruiranno il futuro». Il futuro dipenderà veramente da loro? Fare l’attore non è facile. «Non lo è mai stato, in questo Paese non ci sono mai state le condizioni per fare cultura. Però sei tu che decidi. Io all’inizio ero osteggiato, ma questo non mi ha fermato. Se hai un timone, sai dove non andare. È facile perdersi, fra una soap e uno spot. Un giovane deve avere questa consapevolezza, il tempo passa e ci vuole un attimo a trovarti fra 20 anni a illuderti di fare l’artista, solo per un discorso di vanità». Che cosa vi aspettate da Spoleto? «Sono i 60 anni di un festival importante che presenta un teatro internazionale. È un’occasione per farci conoscere da un pubblico che non ci conosce. Vogliamo osservare lo sguardo di chi non ci ha mai visti, capire se riusciamo a comunicare». So che non ama parlarne, ma voi un tempo scrivevate I Cesaroni. «È come raccontare il rapporto con la prima moglie di Barbablù: lui poi ne ha avute altre sei. Abbiamo fatto Tv perché avevamo bisogno di soldi per lavorare in teatro. È il passato». Sempre in Tv, avete anche fatto Hot, serie «piccante» di confessioni femminili. «Ha avuto anche successo. Ma non ci interessava fare la Tv così, avremmo voluto costruire grandi serie, quindici anni fa non era possibile. Noi guardavamo alle serie americane». Le guarda ancora? «Vedo tutto. Sono un grande appassionato di House of Cards. E in una settimana mi sono appena visto tutta l’ultima stagione di Sense8. È come riprendere ossigeno». Oggi tornerebbe a fare Tv? «Non in Italia. Io non ho mai posseduto un apparecchio Tv, e per fortuna qualcuno mi ricorda di mandare la lettera per non pagare il canone. In albergo però l’accendo e noto che il livello qualitativo è sempre molto basso». Meglio fare un film, come avete annunciato? «È difficile avere il tempo, ma dobbiamo farlo perché c’è bisogno di stimoli nuovi. Non sarà una delle tante commedie di quarantenni frustrati che ci hanno offerto in questi anni. Si tratterà di una produzione francese, con una protagonista francese: all’inizio doveva essere italiano, così adesso lo stiamo “riequilibrando”».
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