IL CONCETTO DI LUSSO»
«WARHOL RESE L’ARTE ACCESSIBILE A TUTTI. IO HO CERCATO DI FARE LO STESSO CON
Ci sono le fotografie. Bianca Jagger prima seduta tra lo stilista Halston e Andy Warhol e poi su un cavallo bianco. Jerry Hall che beve a canna una bottiglia di champagne. Uno sconosciuto con la faccia coperta da una maschera fatta di specchi. Brooke Shields bellissima e giovanissima. E poi Paloma Picasso, Anjelica Huston, Iman, Diane von Fürstenberg, Mikhail Baryšnikov, Yves Saint Laurent. Ci sono le feste, come quella che Giancarlo Giammetti organizzò per il compleanno di Valentino a tema circense, con tanto di trapeziste e costumi prestati da Fellini. Ci sono le leggende: alla sera dell’inaugurazione, organizzata da Fiorucci, rimase fuori persino Jack Nicholson. Sono passati 40 anni esatti, ma il mito dello Studio 54 non accenna a diminuire. Sarà che il bianco e nero rende tutto più glamour, o che le celebrity di oggi le vedi troppo su Instagram. Sarà «che fu un fulmine a ciel sereno, capace di fare da culla a molta della cultura pop dell’epoca». Nato a Brooklyn, una laurea in Giurisprudenza, Ian Schrager è l’uomo che il 26 aprile 1977 aprì assieme al socio e amico d’infanzia Steve Rubell il club più famoso del mondo, che provoca nostalgia in chi l’ha vissuto e invidia in chi è troppo giovane per esserci stato («anche i miei figli ne sono ossessionati», mi dice ridendo). «Ma io sono sempre stato quello che a una certa ora andava a casa, era Steve che si intratteneva con le celebrity», racconta ricordando il socio, morto nel 1989. Solo tre anni dopo, però, il 2 febbraio del 1980, lo Studio 54 fu chiuso dalla polizia: evasione fiscale. Due giorni più tardi, Schrager e Rubell finirono in galera: «Ho fatto un errore e ho pagato. Giusto così». Uscirono dopo tredici mesi e vendettero il locale a Mark Fleischman, che lo riaprì e lo gestì per alcuni anni, ma senza la fortuna dei proprietari originari. Da allora, Schrager ha cambiato vita, ha lasciato il mondo dei club ed è diventato uno degli albergatori più importanti del mondo, inventore dei boutique hotel: a Miami il Delano e il Miami Beach Edition, il Mondrian di Los Angeles, ma soprattutto il Morgans, il Royalton, il Gramercy Park di New York. La sua ultima avventura si chiama Public, il nuovo hotel appena aperto nel Lower East Side, sempre a New York, e realizzato con gli stessi criteri con cui sono nati gli altri: «Andy Warhol tolse la pretenziosità dall’arte e la rese accessibile a tutti. Io ho cercato di fare lo stesso con il concetto di lusso». Che cosa ha reso lo Studio 54 così speciale? «Un insieme di cose. Innanzitutto era un locale molto sofisticato, teatrale, fatto per piacere a gente creativa. E poi era a New York, che negli anni Settanta era il posto più eccitante del mondo, rivoluzione sessuale e musicale compresa». Quanto sono state importanti le celebrity per il successo del locale? «Fondamentali. Il magazine People nasceva proprio in quel periodo e con esso il concetto di cultura delle celebrità. I vip venivano da noi perché si sentivano protetti, sapevano che potevano fare quello che volevano, lasciarsi andare. Si sentivano circondati da persone simili a loro». Eppure una zona riservata ai vip non c’è mai stata. «Non volevamo che si sentissero diversi. E poi il segreto di ogni festa è sempre nel mix: il ragazzo che lavora da McDonald’s che balla accanto alla star di Hollywood, la modella in abito da sera vicino al ballerino nudo. Era una cosa che potevi vedere solo allo Studio 54». Però la selezione all’ingresso era durissima. È vero che una volta rimase fuori anche Frank Sinatra? «Di quello si occupava Steve. La gente era furiosa, ci accusava di essere elitari, ma noi non abbiamo mai discriminato. Razza, colore, religione a noi non importavano. E neanche i soldi». Quanto è stata importante la cultura gay nel successo del club? «Decisiva, perché all’epoca era quella che dettava i trend. Noi abbiamo cercato di portare un po’ del sudore e del divertimento dei gay dentro al mondo etero. Il segreto, di nuovo, stava nel mix: se era troppo etero, non c’era abbastanza energia. Se era
troppo gay, non c’era abbastanza glamour. Bisognava trovare la formula giusta». Oggi invece a New York i soldi contano tanto. «In quegli anni nessuno aveva niente da perdere, condizione necessaria per favorire le esplosioni di creatività. Oggi la gente ha molto da perdere: soldi, potere, status. New York era il centro del mondo: se volevi fare musica, moda, vivere da artista dovevi venire qui. Adesso è diverso. Tutto è decentralizzato: non c’è bisogno di spostarsi». Però lei a New York investe ancora: alberghi, condomini. Il suo business è qui. «È ancora un luogo molto intenso, dove tutto va veloce. Francis Scott Fitzgerald credeva che New York fosse finita dopo gli anni Venti. I miei genitori pensavano che lo fosse dopo i Cinquanta». Una delle foto più famose dello Studio 54 è Bianca Jagger sul cavallo bianco. «Avevamo inaugurato da circa una settimana. Ci chiamarono per chiederci di aprire il lunedì sera, mentre di norma eravamo chiusi: lo stilista Halston voleva dare una festa per il compleanno di Bianca Jagger. Solo 100 persone, ma le più famose del mondo, da Baryšnikov a Mick Jagger, a Andy Warhol. L’idea era di avere una Lady Godiva nuda su un cavallo bianco che sbucava da dietro a una tenda, con la torta in mano. Appena Bianca vide il cavallo ci volle salire. Il resto è storia: quella foto finì sulla prima pagina di tutti i giornali del mondo». Perché l’epoca del clubbing a un certo punto è finita? «Regole di ogni tipo, anche quelle sulla sicurezza. Non dico che siano sbagliate, ma limitano molto. La seconda ragione è economica: il clubbing è un business per giovani, ma oggi per loro è difficile ottenere finanziamenti, figurarsi comprare o affittare uno spazio. Oggi ci sono i promoter: girano di club in club, ma non è la stessa cosa». Come è passato dal club più famoso del mondo ai boutique hotel? «Sembrano mondi distanti, ma non lo sono: entrambi hanno a che fare con l’ospitalità. Lo scopo ultimo è far stare bene la gente e farla divertire. Quando gestisci un club non hai un vero prodotto da vendere, vendi la magia che si crea all’interno, l’eccitazione. Tutti i club hanno più o meno la stessa musica, gli stessi alcolici. Quello che li differenzia è l’esperienza. L’hotel è simile: tutti hanno i letti e i bagni. La distinzione non si fa sul prodotto, ma sull’esperienza, sulle emozioni che si riesce a trasmettere. Per me è stata una progressione naturale, direi quasi logica: il mondo degli hotel è molto più adulto e civilizzato, con orari più umani». Donald Trump frequentava lo Studio 54? «Sì. L’ho conosciuto prima che diventasse un famoso imprenditore, e ho pensato che fosse un uomo molto carismatico. La sua carriera nell’ospitalità è stata per me una fonte di ispirazione». Che giudizio ne dà come presidente? «Non credo si possa guidare un Paese nello stesso modo in cui si guida un’impresa. Detto questo, fare il presidente ha una curva di apprendimento, c’è spazio per migliorare. Di lui so che è un grande lavoratore, che è intelligente e che ha cresciuto degli ottimi figli». È vero che ammira molto Giorgio Armani? «Una volta lessi un’intervista in cui parlava della morte del suo socio (Sergio Galeotti, scomparso nel 1985, ndr) e di come fosse stato difficile superarla. Eppure ci è riuscito, e il suo impero è diventato ancora più grande. Mi piacciono le persone che affrontano grandi difficoltà».