Vanity Fair (Italy)

QUANTO SONO DIMAGRITA,

L’IDEA CHE LE DONNE HANNO BISOGNO DI APPROVAZIO­NE»

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album, Other, ed è uno dei suoi migliori in assoluto. Elettronic­o in modo non convenzion­ale, anche nella scelta dei temi: «Il mito di Persefone, l’ostinazion­e, la mia dislessia», snocciola lei, «e poi le passeggiat­e sul mare, la diversità…». In che modo si sente diversa? «Sono figlia di un immigrato francese, quando sento parlare di Brexit ci penso sempre. Mi vien voglia di dire: scusate ma gli infermieri che curano i vostri genitori negli ospedali da dove arrivano? Conosco bene la chiusura mentale che la provincia inglese sa coltivare. Sono cresciuta a Basildon, nell’Essex, una new town senza storia e soprattutt­o senza cultura, e già questo ci faceva sentire diversi dagli altri ragazzini. Poi c’era il fisico. In famiglia siamo tutti corpulenti, per via delle origini contadine di mio padre. Non è stato facile: negli anni ’70 essere una ragazzina robusta equivaleva a essere brutta». Come reagiva? «Da maschiacci­o. Avevo la fama di una che si divertiva più a picchiare che a flirtare. Mi piaceva cantare, questo sì. A 15 anni ho messo su la prima band, facevamo punk. In classe con me c’erano Martin Gore e Andy Fletcher dei Depeche Mode…». Così ha incontrato Vince Clarke? «È successo dopo. Lo conoscevo di vista, lui e i suoi fratelli non passavano inosservat­i, biondi quasi albini. La scuola era finita, cercavo una band di rock blues con cui cantare così misi un annuncio su un giornale, il Melody Maker. E si fece vivo lui, con i suoi sintetizza­tori. Gli devo molto, ma come ho raccontato spesso, non abbiamo mai legato. Ci siamo veramente parlati per la prima volta nel 2008, con il reunion tour degli Yazoo, ma è finita là. Siamo rimasti diversi». Ora invece, nella canzone The English U, lei duetta con sua figlia Caitlin. «La canzone però è per mia madre. Una studentess­a di liceo classico diventata insegnante che ha sempre voluto dominarci tutti, ma l’unica cosa su cui è riuscita a esercitare il controllo è stata la grammatica inglese. In questo era un’autentica fascista! La faceva impazzire che gli americani eliminasse­ro la “u” da certe parole; noi diciamo colour, flavour, rumour, loro dicono color, flavor, rumor. Per lei era un affronto. E doveva anche gestire me, che sono dislessica. Il mondo poteva andare in pezzi, ma lei aveva le sue certezze grammatica­li, e a quelle si è sempre aggrappata. Anche quando stava morendo di Alzheimer». Riusciva a ricordare? «Nelle ultime settimane, due anni fa, la portavo a spasso con la sedia a rotelle, non riusciva quasi più a parlare, ma alzava il braccio e puntava il dito contro le insegne dei negozi: “Lì ci dovrebbe essere un apostrofo”. Avrei voluto provare a esserle più vicina in questa sua ossessione, ma non ci sono mai riuscita. L’ho fatto con la musica. Anzi, con la poesia, perché i testi di questo disco sono nati come versi». Che tipo di poesie le piace leggere? «Amo partecipar­e, più che osservare. Scrivo poesie, ma non le leggo, così come canto ma non ascolto quasi musica, e studio scultura anche se non la conosco. Quando qualcosa mi piace preferisco farla più che viverla di rimando». Poetica ma anche cinica? Una volta si è descritta così… «Diciamo realista. E onesta, specie se devo descriverm­i. Quando parlo del mio corpo voglio farlo senza nasconderm­i e senza ipocrisie. Grazie al cielo hanno smesso di fare surreali parallelis­mi con Adele. Sono stata sovrappeso per oltre 40 anni ma proprio come non sopporto il pregiudizi­o verso la ciccia, non tollero il modo in cui viene sottolinea­to quanto sono dimagrita. Al fondo c’è sempre l’idea che le donne abbiano bisogno di approvazio­ne. Per fortuna sono una cinquanten­ne». Che cosa intende? «Con la mezza età diventiamo socialment­e invisibili, non ci si fila più nessuno. Ma non è un mio problema, mi godo la libertà: di guardare senza l’ansia di essere guardata, di girare a testa alta e osservare tutto». Che cosa la fa arrabbiare di più? «La cattiveria umana. Chi si diverte a umiliare gli altri». Se si guarda indietro cosa prova? «Nessuna nostalgia se non per le persone che ho amato. Gli anni ’80 sono stati una febbre, succedeva tutto così in fretta che me ne sono resa conto solo molto dopo. Mi viene in mente il Live Aid, nel 1985. Ero così persa nei miei pensieri, quando me ne parlarono, che avevo capito di dover cantare alla Wembley Arena (il palazzetto da 12 mila posti, ndr). Il giorno del concerto vengono a prendermi. In elicottero. Pensai: bizzarro, che bisogno c’è di un elicottero? Salgo, e c’erano David Bowie e Bono degli U2 sorridenti che mi dicono, dai, dobbiamo arrivare allo stadio (di Wembley, di fronte all’Arena, 90 mila posti, ndr)! Non so ancora come sono sopravviss­uta al colpo che mi prese».

 ??  ?? QUASI AMICI Alison Moyet e Vince Clarke, 56 anni, nel 1982 ai tempi degli Yazoo. Il duo ha deciso di riunirsi per un tour nel 2008.
QUASI AMICI Alison Moyet e Vince Clarke, 56 anni, nel 1982 ai tempi degli Yazoo. Il duo ha deciso di riunirsi per un tour nel 2008.

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