DOVE SI LANCIANO I MISSILI
«OGNI ANNO IL SUPREMO LEADER CI REGALA UN PACCO DI COSE BUONE E UNA VACANZA SUL LAGO YONPHUNG»:
éuna luminosa mattina di metà maggio, a Pyongyang, e Kim è eccitato: «È stato lanciato un missile!». Kim è una delle mie guide, un giovane di 25 anni, e il suo entusiasmo è palpabile. Indica lo schermo gigante, nella lobby, che domina, su in alto: un siluro si leva, in un paesaggio rurale tra fuoco e fiamme. «È una cosa nuova!», dice, e stringe i pugni e sciorina a memoria i dettagli. «Il razzo può contenere una testata nucleare più pesante, ha raggiunto un raggio di 787 chilometri e un’altitudine di 2.111!». Kim è felice. Tira fuori il suo cellulare autarchico, e legge un pezzo del giornale di Partito, Rodong. È la sua unica fonte, da quando è nato. Gli crede ciecamente, i fatti esistono solo quando sono pubblicati. La mattina del 15 maggio Rodong scrive che, dopo il lancio, il Leader Supremo ha pianto e ha detto che il missile è un passo, verso la pace. Sarà uno dei mantra del mio viaggio in Nord Corea, il più totalitario degli Stati: la guerra è pace. «A nessuno viene in mente di bombardare una potenza nucleare», mi dirà alla fine un alto dirigente del Partito dei Lavoratori, Hwang Jong Hun. «Non siamo la Libia o l’Iraq. L’America non ci ruberà la sovranità».
Èdifficile, per una giornalista occidentale, andare a Pyongyang. Il governo è parsimonioso con i visti, e l’ingresso comporta la quasi totale privazione della libertà. E così, quando finalmente ci arrivo, ciò che non mi aspetto è l’imprevisto che irrompe nella realtà. Il funzionario di partito Hwang Jong Hun che giura di aver letto Vanity Fair, il romanzo, e che m’invita nella sua stanza. O l’ufficiale dell’esercito che perquisisce il nostro bagaglio, sul treno che dal confine cinese ci porta a Pyongyang. «Libri? Bibbia? Gps?», chiede arrampicandosi tra le cuccette, a caccia di materiale anarchico, pur avendo sotto gli occhi il mio unico compagno di viaggio: il romanzo di George Orwell, 1984. Lo stacco dalla Cina non potrebbe essere più netto; lì grattacieli e insegne luccicanti; qui strade sterrate, e campi di riso, contadini e buoi con l’aratro. Non ci sono graffiti, né indicazioni, non ci sono pubblicità né altre distrazioni; solo il cielo blu, infinito, e sinuose colline, verde velluto. È così che doveva essere il nostro Sud, alla fine della Seconda guerra mondiale. C’è un cinese, nel mio scompartimento, incollato al finestrino. «È incredibile», dice. «Neppure 40 anni fa la Cina era povera così». Un omino sulla sponda di un rigagnolo saluta il treno col bastone. «Però si vede il cielo», mormora il cinese. Siamo quasi arrivati; dai binari s’intravedono, colorati grattacieli e viali sterminati. lla stazione, il primo impatto con le nostre guide è soave: Kim è giovane e spontaneo e lavora in tandem con Che, una signora sulla quarantina, bonaria. C’è inoltre un terzo custode, forse l’unico molesto: un fotografo di poche parole che ci fotografa mentre fotografiamo la Corea del Nord. Ci sono tre divieti, principali: vietato fare foto ai soldati, vietato fermarsi per strada, vietato tagliare le immagini dei grandi Capi. Ne ho poi scoperto un altro, più personale: vietato non aver voglia di visitare il Museo del Francobollo poiché «mi fa bene», pare.
PAyongyang, al primo impatto, è surreale. Dalla finestra dell’hotel, evoca una gigantesca costruzione Lego, a tinte rosa e turchese. Il cambiamento è recente; il grigio del passato è stato cancellato dal Capo, il maresciallo Kim Jong-un, classe 1984, figlio di Kim Jong-il, deceduto nel 2011, figlio di Kim Il-sung, padre eterno della patria. Questi ultimi due signori, morti, a Pyongyang ti guardano sempre: