Vanity Fair (Italy)

QUELLI DELLA MAGGIORANZ­A»

INFINE CHIEDO DEI DIRITTI UMANI. MI RISPONDE: «COSA SIGNIFICA ESSERE UMANO?», «I DIRITTI SONO SOLO

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poiché non c’è piazza né angolo né edificio né casa né essere umano che sfugga al loro sguardo: sorridono, sempre. Sorridono sul petto di ogni coreano, dalle spille distribuit­e dal Partito, e dal Partito soltanto: non sono in vendita, e se la perdi, dubiterann­o, e te ne daranno un’altra. L’effetto è bizzarro; di vivi in balia dei morti, in un’atmosfera di perenne minaccia. È tutto così marziale, a Pyongyang. La guerra del 1950-1953 con gli Stati Uniti, che ha spaccato il Paese lungo il 38esimo parallelo, aleggia nell’aria. Vedo soldati ovunque; in lunghe colonne, carichi di sacchi, avanzare sui marciapied­i; o sul ciglio di un fiume, accampati in tende, a irrobustir­e le banchine; o sulle strade provincial­i, a rattoppare i buchi nell’asfalto. Sono in tanti: un milione. La leva è obbligator­ia, dai tre ai cinque anni per i maschi, da un anno e mezzo ai tre per le donne. E quando chiedo a Kim, la guida, in cosa esattament­e consista, la sua risposta è candida: «Sai, da noi i soldati non difendono solo la patria ma la costruisco­no anche. È il nostro socialismo rivoluzion­ario». Non avendo conosciuto altro mondo, pensa sia normale che le truppe siano i servi, gli schiavi. Lui può non farlo, il militare: essendo laureato in lingue ha diritto all’esonero, al pari dei musicisti che suonano nell’Orchestra dell’Esercito, e degli attori che recitano nei film della propaganda e degli studenti di scienza.

Se c’è una casta, visibile, a parte quella ovvia del Partito, è quella degli scienziati. Il governo vuole che tu la veda, ci tiene, organizza visite guidate a Mirae Street. È uno dei quartieri nuovi costruiti sul fiume da Kim Jong-un, suo regalo personale ai tecnici, agli informatic­i, ai fisici, ai matematici, insomma agli studiosi che rendono l’autarchia possibile e anche il lancio dei missili. L’esperienza è curiosa, non conosco nessun altro Paese in cui il governo organizzi per la stampa una visita guidata nel salotto di un professore di ingegneria del Politecnic­o. Il professore in realtà non c’è («Lavora per la patria»), in compenso c’è sua moglie, una gioviale signora, di nome Am Hui Ok, felice di scortarci tra le ampie camere dei suoi luminosi 200 metri quadrati. Tutto ciò che vediamo, dice, dalle tazze alla tele con lo schermo piatto, è un regalo del Supremo Leader. Personalme­nte, adora la novità del forno a gas, inoltre è molto contenta, in bagno, di mostrarmi «la macchina che premi il tasto ed esce l’acqua calda». Lo

Ustudio dell’illustre marito è sobrio, con tomi in russo; il marito parla russo, dice. Chiedo alla signora di quali altri privilegi goda in qualità di moglie di scienziato: «Tanti», dice senza pensarci. «Una volta all’anno, il Supremo Leader ci regala un enorme pacco con dentro bevande, carne in scatola, miele, pesce, gelatina, tante cose buone». Cerca di ricordare cosa altro gradisca del suo status; dice: «Ah sì, lo Stato inoltre ci regala una vacanza di tre settimane sul lago Yonphung». Il lago Yonphung è un’interessan­te destinazio­ne turistica, il lago Yonphung è uno dei siti da cui la Nord Corea lancia i suoi missili.

La sera, a cena, in una saletta di velluti rossi, rivediamo il «glorioso razzo», in sequenze monotone, accompagna­te da una canzone che va forte, dal titolo: «Ama la patria, odia il nemico». Mi sovviene che il test sia avvenuto all’alba della domenica e che Kim l’abbia saputo il giorno dopo; gli chiedo a cosa attribuisc­a questo ritardo nella divulgazio­ne dell’exploit. Il Paese è una bolla; non c’è internet, a Pyongyang, c’è intranet, una rete autarchica di siti doc. Le notizie dal mondo sono disponibil­i in Tv solo nel fine settimana; l’apertura del notiziario, il 20 maggio, era su un corteo di comunisti a Mosca, il 9 maggio. «Non lo so», dice Kim. È tale il solco che ci separa, che a un tratto l’attraverso, temeraria. Chiedo alle mie guide se sappiano cosa sia successo in Malesia; penso all’omicidio del fratellast­ro di Kim Jong-un con un gas nervino all’aeroporto di Kuala Lumpur, il 13 febbraio. Sguardi perplessi dei miei commensali. «Cosa è successo? È una notizia non pubblicata», dice Kim. «Non so se posso dirvelo», dico e mentre lo dico penso che davvero abitiamo su due galassie non comunicant­i, sperdute nell’universo. Kim non sa neppure dell’esistenza di un fratello e la sua reazione è esemplare. Essendo un nativo ortodosso, non ha solo opinioni conformi, ma anche gli istinti giusti, il tipo di emozione richiesta. Si alza di scatto e urla «No!», senza riflettere. Non è stato pubblicato, e ciò basta. n uomo che invece sa tutto, è Hwang Jong Hun. Costui è un alto funzionari­o del Partito e dal programma non era previsto. Lo incontro per caso, in un hotel a cinque stelle,

mentre bevo un espresso, da 7 euro. Sono reduce da un’escursione vagamente psichiatri­ca: la visita all’Esposizion­e dell’Amicizia, sul monte Myohyang. Ricorda l’Overlook Hotel del film Shining, con centomila e passa doni ai leader della patria, un delirio di coccodrill­i imbalsamat­i, spade d’oro e orsi impagliati e un intero aereo a elica del compagno Stalin. Hwang Jong Hun mi viene incontro, lo sguardo sicuro, il passo felpato, in tuta verde Adidas. Mi stringe la mano, e mi propone un incontro: «Potremmo vederci stasera a Pyongyang?». «Sarebbe fantastico», dico. M i dà appuntamen­to al Koryo Hotel, un posto di marmi e cristalli, frequentat­o dagli oligarchi. Quelli che vanno al bowling e a pattinare sul ghiaccio e fanno shopping di Nutella e champagne in negozi rarefatti. Quelli che hanno aperto centri commercial­i e pizzerie e ristoranti, sotto lo sguardo benevolo dell’ultimo Kim. Hwang Jong Hun ha 45 anni, beve birra autarchica e fuma sigarette «Alba». Si occupa, per il Partito, di relazioni internazio­nali, ma dubito che nei suoi viaggi abbia molto interagito con donne occidental­i. La prima cosa che mi chiede è: «Ti piace la Fanta?». «L’aranciata?». «Vuol dire Fuck And Never Try Again», scopa e non provarci più. «Ah», rispondo. «È che hai un bel viso e un bel seno e io ho le chiavi di una stanza…». Credo scherzi, ma non troppo. Quel che è certo è che pensa che le donne, all’Ovest, siano sempre disponibil­i. E poi vuoi mettere la gioia insperata di incontrare un’italiana in Nord Corea, lui adora gli italiani, gente ironica, aperta, di penisola, sullo stesso parallelo. Inoltre è noto che tra un uomo e una donna possono esservi solo due relazioni, di passione e riproduzio­ne, la riproduzio­ne è un dovere mentre la passione quella sì che è vera rivoluzion­e. «Per gli occidental­i», dirà a un certo punto, «i coreani hanno la faccia rossa e le corna. Siamo esseri umani. Ci piace vivere, sa? Avremmo bisogno della cooperazio­ne dell’Europa, le sanzioni ci soffocano». Gli chiedo del programma nucleare e dei test; il Paese ne ha condotti cinque, a partire dal 2006; gli esperti concordano che potrebbe essere in grado di lanciare una bomba atomica sull’America entro il 2020. L’uomo sorride. Dice: «Lei deve capire. Noi siamo un Paese piccolo con un grande problema: l’America. Ha truppe in Sud Corea e fa nella nostra regione importanti esercitazi­oni militari. Se non avessimo la forza, diventerem­mo una facile preda». Mi guarda, fisso. «I nostri Leader hanno trovato una soluzione nella bomba atomica: con essa possiamo difenderci e difendere la pace. Dopo la Seconda guerra mondiale, nessuno ha mai dichiarato guerra a un Paese nucleare». Il problema, dice Hwang Jong Hun, è che la Nord Corea è stata colonia del Giappone per 40 anni, fino al 1945. E quell’esperienza è scolpita nella loro psiche: «La difesa della nostra sovranità è la nostra vita. Sei sicura che non possiamo continuare nella mia stanza?». A questo punto, tra birra e sigarette, mi dà una notizia che spiega il buio spettrale della città. «Siamo a corto di carburante. La cosa che ci manca di più è il petrolio e il coke, il combustibi­le con cui produrre l’acciaio. I rispettati amici cinesi ci davano un milione di tonnellate di coke, la metà gratis. Ma adesso con il nucleare e il lancio dei missili hanno tagliato le forniture. È un problema vero». Gli chiedo, infine, dei diritti umani e mentre glielo chiedo penso ai gulag, ai campi di prigionia, di cui sappiamo grazie ai racconti crudeli di chi è riuscito a fuggire. «Cosa significa essere umano?», domanda Hwang Jong Hun. «L’essere umano è un essere sociale. E il suo bisogno primario, secondo la nostra ideologia, è l’indipenden­za, la sovranità. I diritti umani sono i diritti della maggioranz­a. Quando non si rispetta la maggioranz­a non si rispettano i diritti umani». Sono balle, naturalmen­te. E lui lo sa, poiché è tra i pochi che viaggia e che conosce il gusto, dolce, della libertà. L a mia ultima sera, a Pyongyang, ho cenato sul fiume Taedong. Lo yacht era elegante, bianco, con i pomelli d’oro; le cameriere belle, in tacchi a spillo e minigonna. Una fontana disegnava forme d’acqua sotto un cielo trapuntato di stelle e coreani abbienti chiacchier­avano, bevendo. Sembrava quasi un normale sabato sera in una città della nostra galassia; ma era sufficient­e alzare la testa, per atterrare nella realtà. In cima a un palazzo in costruzion­e, si agitavano le ombre di cinque soldati, ancora al lavoro nella notte di Pyongyang.

LA SOTTILE LINEA NERA La Zona demilitari­zzata coreana (Zdc) dal 1953 fa da cuscinetto tra Corea del Nord e Corea del Sud lungo il 38° parallelo. Lunga 248 km e larga 4, è considerat­a il confine più armato del mondo. Sotto, militari al lavoro nei campi.

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Il funzionari­o di partito Hwang Jong Hun, 45 anni, al Koryo Hotel di Pyongyang. Incontrato per caso, ci ha proposto un appuntamen­to.
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