Un’isola madreperla
Nell’arcipelago della Polinesia Francese amato dai vip si coltivano perle pregiatissime
L’isola di Brando è meta del jet-set, altre sono accessibili a tutti per una vacanza romantica. Fanno parte degli esotici atolli della Polinesia Francese, famosi anche per le perle coltivate. Il dono più bello di quelle acque da Eden
Ci sarà un motivo se Pippa Middleton e James Matthews hanno scelto la Polinesia Francese per il viaggio di nozze? Semplice: al The Brando, isola resort sull’atollo di Tetiaroa, nell’arcipelago della Società, c’è tutto quello che si può desiderare: villa con piscina, accesso in laguna a uso esclusivo della coppia, nessun paparazzo all’orizzonte. E si può evitare di uscire dal proprio paradiso privato no a ne vacanza. Cornice ideale anche per Barack Obama che, avendo bisogno di ultimare il libro sugli anni alla Casa Bianca, ha prenotato una suite per un mese intero, tra marzo e aprile. Dopodiché lo ha raggiunto Michelle, e insieme all’amico Bruce Springsteen sono salpati su un super yacht alla volta di altri magnici atolli. L’isola che Marlon Brando aveva comprato per sé è infatti solo una delle 118 grandi, piccole e minuscole, abitate e no, che compongono la Polinesia Francese, cinque arcipelaghi nel Pacico meridionale – Società, Tuamutu, Marchesi, Gambier e Australi – dove chiunque vorrebbe andare, perché assomigliano davvero ai luoghi dei sogni. È vero, il relax sugli atolli del Pacico meridionale è un evergreen del jet set internazionale, ma non è solo per loro. Accanto ai lussuosissimi Four Seasons, St Regis e Conrad da «mille (euro) e una notte» a Bora Bora, ci sono isole autentiche, con vita contadina e pensioni famigliari a prezzi onesti (da 100 a 300 € per notte), come La Perle de Taha’a (perledetahaa.com) o Les Relais de Joséphine a Rangiroa (relais-josephine-rangiroa.com), entrambi con bungalow graziosissimi e romantici sospesi sull’identico meraviglioso mare turchese, in cui nuotano balene, razze e altri pesci tropicali. Essendo terre lontanissime – ci vogliono all’incirca 24 ore di viaggio via Tokyo o via Los Angeles (airtahitinui.com; tahiti-tourisme.it) – le terre francesi d’Oltremare sono perciò ancora più esotiche nel nostro immaginario, con le fanciulle che portano ori di tiaré tra i capelli, come nei quadri di Gauguin, il profumo di vaniglia
e le perle pregiate. Ma se il turismo di innamorati, famiglie, velisti, sur sti e altri amanti del mare totale resta l’entrata principale dell’economia locale, anche l’agricoltura, la pesca e soprattutto l’allevamento di ostriche perlifere hanno oggi un ruolo rilevante. In particolare, la coltivazione delle perle nere è un’attività relativamente giovane, nata nel 1965 nella laguna di Manihi, nell’arcipelago di Tuamotu, quasi come esperimento, man mano si è espansa a Fakarava, a Rangiroa, e a Taha’a, nelle Isole della Società, no a rappresentare il 18% del Pil e impiegare 7.000 persone. Anzi, le perle sono attualmente la prima voce delle esportazioni (64% dell’export totale), con un ricavato di 20 milioni di dollari per la vendita all’estero di oltre la metà della produzione. Come questo sia accaduto è presto spiegato: le ferme perlière sono attività artigianali che danno lavoro alle famiglie di pescatori, e la perla detta di Tahiti è unica al mondo per quel colore verde scuro, blu, argento che tende al nero. Come tutte le cose belle, molto fa la natura. Nelle acque calde della laguna le ostriche crescono carnose, grandi e pesanti no a 4-5 kg, e sono l’ambiente ideale per le gemme di mare. I pescatori le raccolgono, le aprono, inseriscono un nucleo di conchiglia del Mississippi, quindi le reimmergono con un retino per tenerle insieme, o in grappoli lungo una corda. Periodicamente controllano che la perla cresca bene no all’estrazione, dopo 2-7 anni, a seconda della grandezza desiderata. L’ultima fase è la selezione, sempre manuale, per dimensioni e colore, un lavoro minuzioso e di esperienza che de nisce il prezzo unitario, da 15 a 1.000 euro, e la destinazione: solo l’1% delle perle è adatto all’alta gioielleria. L’intero processo si svolge entro poche decine di metri, la lunghezza del pontile che va dal vivaio alla casa dei pescatori, mentre nei fondali, le concessioni per l’allevamento possono espandersi per 4 ettari e oltre. Del lavoro di una ferme perlière fanno parte anche la visita guidata e la vendita di gioielli. A Taha’a, isola famosa anche per la vaniglia e le bellissime orchidee, lavorano Aymeric e Maeva, gli dei fondatori Monique e Bernard Champon (tahiti-perle-online. com), di cui portano avanti la loso a, sviluppando ulteriormente l’aspetto ecologico e sostenibile dell’allevamento. Grazie alle loro spiegazioni, in un’oretta si impara la liera corta che termina con il montaggio espresso di bracciali, orecchini e collane nel laboratorio casalingo. Ma in poco più di cinquant’anni, le perle nere sono diventate una sorta di doc polinesiana, con tanto di certi cazione Gia (Gemological Institute of America), il più autorevole sistema di valutazione delle gemme. Merito in gran parte di Robert Wan, pioniere dell’industria che negli anni ’70 ha cominciato da zero seguendo gli insegnamenti del giapponese Sato. Wan è oggi il maggior produttore al mondo con negozi all’estero, compreso uno in rue de Rivoli a Parigi, corner nei cinque stelle più eleganti dell’arcipelago, e un museo della perla a Tahiti dove è esposto l’esemplare più grande mai realizzato in Polinesia Francese, di valore inestimabile. Turismo e industria trovano così nelle perle nere un perfetto trait d’union, che da un lato accresce le esperienze dei viaggiatori introducendoli alla cultura e alla vita locale, e dall’altro raorza l’identità polinesiana aggiungendo al mare tropicale un’altra meravigliosa tentazione.