Moderne regine
In un «gioco dei contrari» una fotografa ha chiesto a delle studentesse e professioniste della nuova generazione di donne africane di togliere i jeans e indossare i costumi e i monili della tradizione. Ne è nato il progetto Resilients, ritratti che raccon
Il riscatto delle giovani africane (che si mettono nei panni delle loro ave)
Molte cose ho imparato in Malawi. Che si può rasentare una felicità quasi perfetta seduti su una stuoia in mezzo al nulla, che il sorriso dei bambini dovrebbe essere dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità e che quello che ci mettiamo addosso è capace di tirare fuori cose a lungo assopite in noi. Nascere donna in Africa ancora oggi signica sottostare a una serie di obblighi, limiti e convenzioni sociali dicili da accettare. In molte zone rurali essere femmina, spesso, vuol dire posizionarsi un paio di gradini sopra al rango di animale domestico. Devi obbedire al marito, sfamare lui e i gli, sperando che resti qualcosa per te, fare andare avanti la casa e pregare che il tuo uomo non ti infetti con qualche brutta malattia (Aids, in testa), perché a quel punto lui potrebbe decidere di ripudiarti. Senza contare le pressioni degli altri membri del villaggio, che si sentono autorizzati a incasellarti in ruoli prestabiliti da sempre. Istruzione e consapevolezza del proprio valore sono le armi che le nuove generazioni di africane usano per affrancarsi da uno stile di vita retrogrado, una liberazione che passa anche dall’abbandonare i modi di vestire e di adornarsi delle proprie madri. Ne è passato di tempo da quel reportage tra Lilongwe e Blantyre, tra i ricordi indelebili resta la nostra guida, Maureen. Vita di città e lavoro per una seria ong, ci accompagnava in luoghi sperduti per incontrare le popolazioni che beneciavano di programmi di sostegno e sviluppo di una micro economia. Prima di presentarci al capo-villaggio tirava fuori dalla borsa due pagnes, i tipici teli a stampe coloratissime con cui le donne di campagna si vestono. Uno era per lei, l’altro per me, perché non voleva mancare di rispetto alle consuetudini del posto con i nostri jeans. Loro, le signore della savana, ci accoglievano splendide con le loro collane di perline colorate, i bracciali di legno, gli orecchini che appesantivano i lobi. Probabilmente moriranno senza sapere cos’è l’acqua corrente, e il rado bestiame che avevano intorno era poco più di un ammasso di pelle, ossa e pulci, ma se dovessi spiegare a un alieno che cos’è una regina, tirerei fuori quelle foto. Basta una rapida ricerca per capire una cosa: il rapporto tra Africa e monili è unico e speciale. Il più antico esempio di gioiello è stato rinvenuto nel 2004 a Blombos, in Sudafrica. Si tratta di una serie di conchiglie a cui era stato praticato un foro per inlarle in una collana e la datazione risale a circa 75mila anni fa. Nel tempo i materiali si sono evoluti, anche se è rimasta forte la pratica di realizzare bijoux utilizzando i materiali presenti nella natura circostante. E la leggenda dice che possedere un pezzo di antica gioielleria africana porti saggezza, speranza, fortuna e benessere a chiunque lo indossi. In tutto il mondo gli orpelli rappresentano uno strumento preciso di comunicazione non verbale. Specie nelle società tribali aiutano a identicare chiaramente il potere individuale, la ricchezza e il posto che si occupa all’interno di un sistema di classi, seppure semplicato. Tra gli Zulu, per esempio, sono le sorelle maggiori a introdurre le più giovani al linguaggio silenzioso di anelli e collari, decorati con
triangoli colorati dove il vertice in su o in giù può lanciare messaggi molto diversi. Noi occidentali di solito strabiliamo di fronte al fascino di quelle creazioni ancestrali. Ci in liamo entusiasti le di braccialetti, che magari abbandoneremo nel cassetto una volta rientrati a casa. Fatichiamo a comprendere che una ragazza di laggiù possa non volerne sapere di metterseli addosso. Resilients è il progetto portato avanti dalla fotografa Joana Choumali per rimettere in contatto le donne africane più emancipate con le loro radici. Per metà ivoriana, incrociata con sangue spagnolo e della Guinea equatoriale, Choumali ha chiesto a una serie di donne cresciute nelle città, o addirittura al di fuori del continente, di posare indossando abiti e gioielli tradizionali. Il tutto nasce dalla sua esperienza personale, quando alla morte della nonna, nel 2001, si rende conto di quanto bagaglio culturale sia andato perso insieme a lei. Prende vita così l’idea di creare un set e proporre a donne come lei di confrontarsi con le tradizioni. Le «modelle» arrivano dai punti più disparati dell’Africa e per molte non è semplice riappropriarsi delle proprie radici, nché Joana introduce una novità: posare indossando abiti e gioielli tipici delle diverse etnie. A quel punto tutto cambia. La faccenda prende quasi una piega rituale. Molte arrivano all’appuntamento facendosi accompagnare dalla madre, dalle sorelle, oppure dalle amiche. Qualcuna porta con sé indumenti e monili di famiglia, altre se li fanno imprestare. Si vestono, si sistemano sulla sedia e i loro gesti, la postura, gli sguardi non sono più gli stessi. Dicono che i gioielli e le stoe le fanno sentire più forti, che scatta dentro di loro una sensazione di regalità. Poi iniziano a ricordare, a raccontare le storie degli antenati, a farsi domande sulla vita che stanno vivendo, sul come si percepiscono. Ha un che di magico il processo emotivo che si innesca, in fondo sono solo stoe sgargianti e pezzi di osso, legno, perline. Oggetti comuni capaci di creare una connessione vivida tra presente e passato. A guardare le immagini viene a galla una domanda. Per chi, come noi, è cresciuto con strappi, in apparenza, meno traumatici tra il modo di vivere di madri e glie l’esperimento sarebbe altrettanto ecace? In tante abbiamo saccheggiato l’armadio e il portagioie della mamma da ragazzine. Lo abbiamo fatto per gioco, senza badarci troppo. Ma se dovessimo fare un elenco delle cose a cui possiamo rinunciare, in poche includeremmo l’anello della nonna. Quelli non sono gioielli, sono pezzi della nostra storia.