Vanity Fair (Italy)

In punta di gemma

Le pietre preziose ispirano Jewels, celebre balletto di Balanchine, che compie 50 anni. Tra smeraldi, rubini, diamanti, una storia leggendari­a. Che comincia davanti a una vetrina di Valentina Colosimo

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New York, 1967. È una giornata d’inverno e le commesse della gioielleri­a Van Cleef&Arpels, sulla Quinta Strada di Manhattan, notano un tizio sulla sessantina sso davanti alla boutique. Ha un’aria sospetta, passa da una vetrina all’altra come ipnotizzat­o e non sembra avere intenzione di entrare né di andarsene. Che cosa sta facendo? A prendere in mano la situazione è il direttore, Claude Arpels, che esce e chiede spiegazion­i. Sorpresa: quell’uomo è George Balanchine, uno dei coreogra più importanti del Novecento. I due scambiano qualche battuta: Balanchine dice che è rimasto incantato dalle gemme, gli ricordano quelle degli zar; Arpels si scusa e gli chiede come può rimediare alla guraccia, se può ošrirgli qualcosa; l’altro ribatte: «Perché non mi ošre il décor del mio prossimo lavoro?». Non è una boutade, ma ancora nessuno immagina che su quel marciapied­e, davanti a quelle pietre preziose, stia nascendo l’idea di un balletto che entrerà nella storia: Jewels, «Gioielli». Che l’aneddoto si sia gon ato no a diventare leggenda, frutto di un’operazione di marketing quando ancora il marketing non era materia di studio nelle università, poco importa. Se quest’anno una moltitudin­e di compagnie festeggia il cinquantes­imo compleanno di Jewels – l’ultima è stata quella della prestigios­a Royal Opera House di Londra con uno show, in aprile, che è stato trasmesso in diretta nei cinema di tutto il mondo – è perché si tratta di un balletto che nel tempo è riuscito a mantenere alta la popolarità, con il suo perfetto equilibrio tra tecnica e intratteni­mento. Jewels è un trittico che dedica ciascuno dei

suoi atti a una pietra preziosa: Emeralds (smeraldi), Rubies (rubini) e Diamonds (diamanti). Un’opera fondamenta­lmente astratta che si compone di tre divertisse­ment privi di una trama precisa, lontana dal balletto tradiziona­le: niente soldati a cavallo, personaggi abeschi, dame di compagnia, cortigiane con le parrucche che passeggian­o sul palco o fanno nta di parlare. Due ore e mezza di pura e contempora­nea coreogra a. Eppure non fu facile sdoganare il nuovo format. Al trionfale debutto nella primavera del 1967 al Lincoln Center di New York, i fan puristi del coreografo, aŠezionati all’estetica modernista delle opere degli anni Quaranta e Cinquanta, guardano a Jewels come a un passo indietro. Di più: una trovata commercial­e, diremmo oggi. Il concept ispirato alle pietre preziose, i costumi pieni di lustrini: tutto, ai loro occhi, alimenta il sospetto che Balanchine si sia «venduto». E soprattutt­o a irritare gli appassiona­ti è l’obiettivo sfacciato di attirare un pubblico più vasto, in grado di riempire la grande platea del Lincoln Center, dove il Maestro e la sua compagnia, il New York City Ballet, si sono da poco trasferiti. I detrattori della prima ora, però, cambiano ben presto idea, e la storia li ha smentiti: Jewels è considerat­a un’opera di culto per il suo eccezional­e valore artistico. I gioielli del titolo non sono solo un ra˜nato product placement ante litteram, ma un veicolo di espression­e, una metafora. Tutto – alcuni schemi di movimenti che ricordano forme di collane, braccialet­ti e pendenti, l’incedere altezzoso colorato di rosso della coreogra a dei Rubies e la brillantez­za pallida e smussata nei passi dei Diamonds – serve a Balanchine per dare voce al suo personale racconto della storia della danza. Emeralds celebra Parigi e il balletto romantico francese. La musica di Gabriel Fauré, tratta da Pelléas et Mélisande e Shylock, evoca l’atmosfera elegante, lussuosa

e sensuale della Ville Lumière ottocentes­ca. I costumi verdi dei ballerini richiamano foreste incantate, scene di caccia; i protagonis­ti, due principess­e e i loro spasimanti, si esibiscono e poi svaniscono nel corpo di ballo, come

gure di un arazzo. Con Rubies, sulle note jazzate del Capriccio per piano e orchestra di Stravinsky, il suo compositor­e preferito, Balanchine riscrive i musical di Broadway della metà del Novecento, con l’energia – rossa come i rubini – che sprigiona l’America, ai suoi occhi di immigrato georgiano. Più che una scena di corteggiam­ento, il duetto centrale è un duello pieno di humour tra due amanti, con il contorno ironico della

gura della dominatric­e che con le gambe «a„etta» la testa ai suoi ammiratori. E in ne con la Sinfonia n. 3 di Čajkovskij in Diamonds si torna all’infanzia del coreografo e ai fasti del balletto dei Teatri Imperiali russi (dove erano state create le pietre miliari del repertorio), con riferiment­i più o meno espliciti allo Schiaccian­oci, Raymonda e La bella addormenta­ta. Grandi classici del passato, così come Jewels è diventato un classico moderno.

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 ??  ?? A sinistra, una scena di Emeralds da Jewels del New York City Ballet del 1969. Pagina accanto, George Balanchine e l’étoile del New York City Ballet Suzanne Farrell con gioielli Van Cleef&Arpels a Parigi nel 1976. Sotto, una spilla del 1945 in oro...
A sinistra, una scena di Emeralds da Jewels del New York City Ballet del 1969. Pagina accanto, George Balanchine e l’étoile del New York City Ballet Suzanne Farrell con gioielli Van Cleef&Arpels a Parigi nel 1976. Sotto, una spilla del 1945 in oro...

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