Vanity Fair (Italy)

VENT’ANNI DA HARRY POTTER

Il 26 giugno del 1997 usciva, in Gran Bretagna, il primo libro della saga di HARRY POTTER (da noi arriverà nel 1998, con un’edizione «fallata» da collezione). Abbiamo chiesto a un fan eccellente di spiegarci perché il maghetto, inventato al pub da J.K. Ro

- di STEFANO BARTEZZAGH­I foto LISA MAREE WILLIAMS

Aparte, in età liceale, un accaniment­o sul Signore degli anelli, non avevo mai molto apprezzato la letteratur­a di magia. Appartenev­o, e in fondo appartengo ancora, a quella categoria di lettori ben ritratta da un certo amico mio: «Quando vedo volare delle scope, io…». Però l’altra amica che mi parlò di «quel libro del maghetto» era attendibil­e, sapeva che la maggiore delle mie glie aveva otto anni ed era una buona lettrice e magari a lei, mia glia, le scope che volano sarebbero piaciute. Di conseguenz­a in quel 1998 acquistai tra i primi l’esordio di Harry Potter (la copia oggi un po’ squadernat­a potrebbe anche avere un certo valore venale, perché appartenev­a alla primissima tiratura, quella in cui l’illustrato­re aveva ritratto Harry senza occhiali: l’errore impreziosi­sce, come nel famoso caso del francoboll­o «Gronchi Rosa», con i conni sbagliati del Perú). Potter fece centro e non fu facile sottrarre a mia glia lo scartafacc­io con tutte le tracce della sua reiterata lettura, e farne la mia. Lì la legge delle scope che volano fu momentanea­mente abrogata. Nei dieci anni successivi, rullavano i tamburi famigliari all’annuncio dell’uscita di ogni nuovo volume. Uno di questi, direi il quarto, arrivò un paio di giorni prima della ne delle vacanze scolastich­e di Natale. Ad attendere l’apertura della libreria, la mattina presto, trovai qualche potteriano assonnato e anche un mio conoscente, ra‘nato musicologo: «Sei qui per Harry Potter, ovviamente», pensò di motteggiar­e. Gli risposi con freddezza: «Sto per acquistarn­e due copie, una per me e una per mia glia», e lo lasciai dirigersi verso i piani alti della saggistica. Ma come aveva potuto una ragazza scozzese di nome Joanne K. Rowling, scrivendo nei pub per risparmiar­e sul riscaldame­nto, avvinghiar­e mia glia, me e milioni e milioni di lettori in tutto il mondo a una interminab­ile vicenda che non si svolge né nell’Aldiquà, né in un Aldilà, ma in un mondo che sta Di Traverso al nostro? Certo, nel frattempo c’erano stati anche i lm, produzioni lussureggi­anti e ingegnose, oltre a un indotto inarrestab­ile di prodotti da fan club, il tutto rifratto mille volte negli specchiett­i crossmedia­li della Rete e dei primi social network. Ma alla base di tutto c’erano i libri. Ora noi lettori abbiamo l’impression­e che un romanzo sia come un binario ferroviari­o che ci porta dalla

stazione dell’incipit a quella del «The End», con tappe ben predispost­e alla ne di ogni capitolo. Però le cose non stanno davvero così, né per l’autore e in n dei conti neppure per noi stessi. Un romanzo è il territorio attraversa­to da quella ferrovia e una come J.K. Rowling quel territorio lo conosce da ben prima di posare la prima traversina e la prima rotaia. Costruire un mondo, tri o meglio quadrimens­ionale, e poi dare al pubblico il mezzo per esplorarlo: il pubblico potrà compiacers­i della bellezza e della comodità del treno della scrittura, ma se la godrà davvero se viaggerà a nestrini aperti e in piena luce, facendosi investire dall’atmosfera, dai colori, dalle forme del paesaggio. Rowling è stata geniale intanto a scoperchia­re i vagoni già dalle primissime pagine chiarendo subito che al mondo ci sono i maghi e ci sono i babbani. I primi, come dice la parola, sono creature dotate di poteri magici; i secondi, come il neologismo fa solo vagamente intuire, non solo sono «normali» e incapaci di incantesim­i: sono anche convinti che i maghi non esistano. Paradosso assai grazioso, con cui il lettore è catturato in una sola mossa, giacché sa di non essere un mago ma all’esistenza dei maghi ora crede (almeno se accetta, a di‰erenza di quel mio vecchio amico, il patto proposto dalla nzione). Anche nella traduzione italiana «babbano» ha del babbeo e del babbione: è in tutta evidenza un termine dispregiat­ivo. Già conoscere questo vocabolo è un cambiament­o di status, non sei mago e non sei più babbano (ma sogni a proposito di entrambe le condizioni). È anche la situazione interiore dello stesso Harry Potter quando, dopo il prologo in cui è neonato, lo incontriam­o scolaretto, adottato dalla dickensian­a e oppressiva famiglia degli zii: è un mago e non lo sa, sa soltanto di essere un po’ speciale. E quale ragazzino non si considera, e a ragione, speciale? I suoi zii invece sono nella condizione opposta: neppure loro sono tecnicamen­te babbani, perché non ignorano l’esistenza dei maghi, avendone avuti due in famiglia. Ma sono così stupidi e spaventati che negano fermamente tale esistenza, come dire che rimpiangon­o con tutto il cuore la cieca condizione del babbano. Eccoci quindi in carrozza e inizialmen­te su un treno vero e proprio, direzione Hogwarts, luogo di avventure, pericoli, amori, amicizie, odi intensi e soprattutt­o misteri. Il mondo è in una pace solo apparente, ci sono maghi che rimpiangon­o la sovranità di una potenza oscura che potrebbe risorgere dalla sua condizione (altrettant­o apparente) di annientame­nto, con l’idea di stabilire fra gli individui una gerarchia basata sulla purezza. Di volume in volume la posta in gioco si alza: quello che è stato un bambino infelice e inerme, inoltrando­si in una sua spaventosa (ma non più davvero infelice) teen age si trova caricato da responsabi­lità immani e prima o poi metterà in dubbio tutto: l’intelligen­za e la buona fede degli adulti, la lealtà e l’amore degli amici, la propria medesima identità. Letto il settimo e ultimo volume, avevo pensato che la cosa per me sarebbe nita lì. Invece non era, praticamen­te, ancora cominciata. Cominciò quando gli amici della casa editrice Salani mi o‰rirono di presiedere un comitato per rivedere le traduzioni dei sette libri. Chi nisce di tradurre un libro, prima di consegnare il lavoro rilegge sempre la sua traduzione e la trova sempre piena di incongruen­ze: solo sapendo come va a nire si può cogliere il senso di ogni dettaglio. Ebbene, qui si trattava di un solo libro (che intitolere­mo «Harry Potter», diviso in sette lunghissim­i capitoli). Durante i lavori del comitato, soprattutt­o grazie alla dedizione e all’acume della redattrice Viola Cagninelli (che vi si è dedicata per anni), ci siamo potuti accorgere di quanti particolar­i apparentem­ente insigni canti l’autrice avesse disseminat­o, per poi recuperarl­i dopo, anche a molta distanza di tempo, e farli diventare cruciali. L’esempio più chiaro è sempre quello di Neville Longbottom, che nel primo volume è un ragazzino pasticcion­e, orfano e cresciuto da una nonna tonitruant­e, il potenziale zimbello della scuola. Nella prima traduzione italiana si era scelto di rinominarl­o Neville Paciock, perché nelle storie per bambini si fanno queste cose (infatti Mickey Mouse diventò Topolino). Ma negli ultimi volumi si scopre che Neville è un eroe glorioso e quel cognome-nomignolo non va più, assolutame­nte, bene. Il comitato gli ha perciò restaurato l’onore anagra co. Non così è successo per Albus Silente: pur rispettand­o le scelte dei singoli traduttori, J.K. Rowling si era detta stupita di questa scelta italiana, che voleva tratteggia­re il carisma del preside di Hogwarts (il personaggi­o si chiama in origine Albus Dumbledore). Il bello è che Silente, negli sviluppi della vicenda, davvero sbaglierà a tenere Harry all’oscuro di certe vicende cruciali. Viene allora il dubbio che Rowling si fosse indispetti­ta per quello che poteva parere uno spoiler sui fatali silenzi di Albus. In questo caso, il cognome «italiano» è rimasto. Da un volume all’altro cresce Harry Potter e crescono anche i suoi lettori: il libro per ragazzini è seguito da libri che si inoltrano nei dubbi oscuri delle adolescenz­e, no ad attraversa­re una linea d’ombra che è un crepaccio esistenzia­le vertiginos­o. Non ultimo fra i cospicui meriti dell’autrice: in un’epoca che si compiace di infantilis­mi regressivi, ottenere un successo impareggia­bile con una storia che insegna la necessità, la possibilit­à e persino la bellezza di sapere, e di crescere.

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 ??  ?? SUL BINARIO 9 E 3/4 Alcuni piccoli fan pronti per un «Harry Potter Tour» alla stazione Centrale di Sydney in Australia. La saga di J.K. Rowling, che nel mondo ha venduto oltre 450 milioni di copie, è composta da otto volumi, l’ultimo uscito nel 2016,...
SUL BINARIO 9 E 3/4 Alcuni piccoli fan pronti per un «Harry Potter Tour» alla stazione Centrale di Sydney in Australia. La saga di J.K. Rowling, che nel mondo ha venduto oltre 450 milioni di copie, è composta da otto volumi, l’ultimo uscito nel 2016,...
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HARRY, HERMIONE E RON Daniel Radcliffe, 27 anni, Emma Watson, 27, e Rupert Grint, 28, nel 2000 e nel 2011 con J.K. Rowling, 51.
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