OGNI ANNO CHE PASSA
È UN PICCOLO, SUBDOLO, KILLER
Il prossimo 27 luglio Jonathan Rhys Meyers compirà 40 anni. Gli faccio gli auguri in anticipo, proprio a inizio intervista, un po’ per ingraziarmelo e un po’ per dare voce alla mia incredulità. Davvero 40? Sembra ieri il sex appeal ambiguo di Velvet Goldmine, sembra ieri la doppiezza erotica di Match Point, sembra ieri il furore malvagio dei Tudors. Che folgorazione è stata, al cinema e in tivù, l’apparizione di questo ragazzo irlandese di tenebrosa bellezza, una faccia nata per lo schermo, un carattere turbolento che lo ha trasformato presto in personaggio inseguito dai paparazzi, arrestato dalla polizia per comportamenti fuori controllo, anima persa, dentro e fuori dalle cliniche per alcolisti. Tutto questo fa sì che Jonathan Rhys Meyers non sia esattamente un adoratore delle interviste. Ne ha sempre rilasciate poche e malvolentieri. Eppure, ad ascoltarlo parlare oggi, mentre ride e scherza, mescolando citazioni colte e qualche parola di italiano (che conosce abbastanza bene) e di tedesco (che ha studiato per un lm dove interpreta un nazista), sembra che qualcosa sia cambiato. Da qualche anno, Jonny (così lo chiamano tutti) vive a Los Angeles, ha una compagna, Mara Lane, e un glio, Wolf, nato nel dicembre scorso. Il 13 luglio arriva in sala con
Black Butter y, un thriller in cui, come al solito, il suo è un ruolo a dir poco ambiguo. È un personaggio di cui non sappiamo nulla, che incontra casualmente uno scrittore in crisi (interpretato da Antonio Banderas) e si in la come ospite nella casa di questi, in apparenza con amicizia. Ovviamente, nulla è cosi limpido e semplice, altrimenti che thriller sarebbe? Il lm è ambientato in Colorado, in realtà avete girato vicino a Roma, dalle parti del lago di Bracciano, vero? «Sì, eravamo in Italia. Io adoro l’Italia, ci ho girato altri lm, il Titus di Julie Taymor e un Mission: Impossible e ho anche vissuto un po’ a Roma! È bellissima! Mi sembra di essere a casa, è proprio una città che mi appartiene. Ma non mi chieda il nome esatto della località dove abbiamo lavorato a Black Butter y perché proprio non lo ricordo. Però mi ricordo benissimo un’altra cosa». Tipo? «Che mentre eravamo sul set, mia moglie ha scoperto di essere incinta. E da quel momento, più o meno, non ho pensato ad altro». E adesso che Wolf è nato? «Ora so che cosa signi ca la felicità. Non avevo mai provato nulla di simile. Un innamoramento immediato e folle, a volte mi sembra che potrei esplodere per il tanto amore. In parallelo a questa gioia, però, mi sono venute delle paure inedite». Per esempio? «Io non ho mai avuto paura della morte. E non posso dire di averne nemmeno adesso. Però, da quando sono padre, mi terrorizza l’idea di chiudere gli occhi per sempre perché signi cherebbe non poterli più posare sul bellissimo viso di mio glio». E invecchiare la spaventa? «Per un attore ogni anno che passa è un piccolo, subdolo, killer». Magari per un’attrice, per gli uomini molto meno. «Ha ragione, esageravo. In realtà qualcosa sta cambiando per tutti. Liam Neeson è diventato una star da lm d’azione a 60 anni compiuti e Isabelle Huppert ha raggiunto l’apice della carriera, in termini di premi vinti e ruoli interessanti, negli ultimi due anni». E poi, qualunque cosa vi succeda, voi attori siete immortali, no? Il vostro lavoro resta, è registrato, riguardabile all’in nito. «Era quello che pensava Peter O’Toole. L’ho frequentato molto negli ultimi tempi della sua vita. “Jonny, noi siamo i primi immortali!”, mi ripeteva. Ed è vero, anche tra duecento anni, grazie al cinema che, in fondo, ha solo un secolo di vita e a tutto quello che è venuto dopo, l’intera nostra carriera sarà sempre lì, contenuta in un microchip, testimonianza eterna». Oggi, anche senza essere per forza attori di professione, lasciamo tutti molte tracce digitali. «Certo, pensi a come sarebbe diversa la nostra idea di fatti e personaggi del passato se avessimo avuto immagini in movimento della loro vita? Se avessimo il video di Leonardo che dipinge o di Napoleone che parla alle truppe, cambierebbe qualcosa nel giudizio storico? Non lo so, ma è interessante chiederselo». Nella storia della televisione, lei è stato all’avanguardia. Uno dei primi attori di cinema, già molto famoso, che si è impegnato in una serie televisiva come I Tudors. «Sì, I Tudors sono stati un progetto rivoluzionario, il primo di quel genere. Si è capito che cavalli e spade potevano funzionare anche in televisione e che, più in generale, in televisione era permesso osare. Oggi Il Trono di Spade non esisterebbe, senza I Tudors». Il cinema è nito, viva la televisione? «Oh no, il cinema non è nito per niente. Magari non si va a vederlo in sala, ma i produttori e gli studios non hanno mai guadagnato così tanti soldi come l’anno scorso! Il contesto dell’esperienza sta cambiando e cambierà, ma i lm restano». Lei è entrato da poco nella serie Vikings, altro oggetto di culto. «Sì, infatti mi hanno detto che devo andare a promuoverla al Comic-Con, la convention di San Diego per i fan di questi prodotti di genere. Mi fa sempre specie che ci siano i fan. Io non ho mai venerato nessuno di vivo, ho sempre e solo venerato i morti!». Che cosa farà il giorno del suo compleanno? «Niente di speciale! Lavorerò!».