Chi è la donna che fece tremare il Pentagono
Si chiamava BRADLEY MANNING e diffuse al mondo i segreti degli Stati Uniti. Ma c’era un altro segreto che la tormentava e che voleva rendere pubblico. Lo ha fatto, e oggi il suo nome è CHELSEA
Chelsea Elizabeth Manning è nata almeno tre volte e non è detto, avendo soltanto 29 anni e una certa determinazione, che non ricapiti. La nascita più recente risale al 17 maggio quando, dopo sette anni di prigione militare in cui era entrata come soldato Bradley Manning con l’accusa di aver passato a WikiLeaks 750 mila documenti top secret dell’esercito Usa, è uscita di galera molto prima del previsto. Grazie a Obama che, tra gli ultimi atti del mandato, aveva commutato la sua pena da 35 a 7 anni. Nelle prime immagini postate su Instagram si vede una donna minuta e decisa, con il rossetto e gli occhi grigio-blu: ricorda Ellen DeGeneres. Sotto la foto scrive: «Ehi tutti eccomi qui». Un’altra inquadra i primi passi liberi dentro le Converse nere. È una donna minuta, alta meno di 1 metro e 60, ma le sue gesta non saranno dimenticate: passando una marea di dati riservati a Julian Assange, ha inaugurato una nuova era di conitti, basati sulle informazioni. Una parte del mondo (non Trump) la considera un’eroina. Il New York Times le ha dedicato la copertina del magazine. Per Vice è «l’anima più pura di Internet». Nella prima intervista Tv, a Nightline di Abc, si rivolge commossa a Obama: «Grazie per avermi dato una chance». Per capire questa voglia di trasparenza, non si può prescindere dall’altra battaglia, privatissima e sempre per la verità, avviata il 22 agosto 2013, giorno dopo la condanna al carcere: questa è la sua seconda nascita. Alla Tv, l’allora detenuto Manning, dichiarò: «Poiché sto entrando nella nuova fase della mia vita, voglio che mi conosciate con il mio nome. Sono Chelsea Manning, sono una donna». Non si era mai identicata nel genere maschile e, presa coscienza della sua identità, ha avviato il processo di transizione. Non è stata un’esperienza alla Caitlyn Jenner: era una donna transgender in un carcere militare duro. L’aspettavano scioperi della fame, tentativi di suicidio, accuse di essere pazza. Ma a questo punto Bradley era morto. Bradley era nato il 17 dicembre 1987 in un paesino dell’Oklahoma. Padre alcolista, madre depressa, subito non s’identica con il proprio sesso biologico, ma con quello della sorella più grande Casey. Le ruba bambole e trucchi. A cinque anni dice a papà che vuole essere una bambina. Deriso a scuola, trova sostegno nel computer: «La mia babysitter», dirà ad Amnesty International. Esplora Internet quando era ancora un luogo sconosciuto. I genitori si separano, segue la mamma in Galles. Lì Bradley scopre la comunità Lgbt. A 16 anni torna in America: ormai ha capito di non essere gay, ma una donna. A questo punto prova un forte e sorprendente (pensando a come prosegue la storia) amor di patria. Si arruola. Diventa un analista esperto di rapporti dal fronte – foto e video – che devono essere trasformati in documenti u¤ciali per il Pentagono. Quando, nell’autunno 2009, è alla base Hammer di Baghdad e trascorre le notti analizzando i video dei combattimenti, capisce di assistere a cose che la gente normale non conoscerà mai. «Cominciai a vedere non più statistiche, ma esseri umani». Scopre allora WikiLeaks, il sito di Julian Assange. Di¤cile immaginare la confusione di questo ragazzo solo e dall’identità traballante, mentre si aggira in licenza per New York nel gennaio 2010. Vaga per le strade con una parrucca bionda e calze di nylon nere. Ha con sé un portatile, su cui ha caricato i le riservati sulla guerra in Afghanistan e Iraq. Il 3 febbraio manda tutto a WikiLeaks. Il testo di accompagnamento nisce con Have a good day… Per due mesi non succede niente, ma quando in aprile il sito pubblica un video mai visto di un elicottero americano che colpisce un obiettivo iracheno, uccidendo bambini e due tecnici di Reuters, è il nimondo. I lmati provengono dall’interno: il Pentagono è ferito alle spalle. A tradire Manning sarà un suo condente, l’hacker Adrian Lamo, diventato collaboratore del governo. È la ne di maggio 2010: Manning, tornato in Iraq, è arrestato e rinchiuso in Kuwait, dentro una gabbia d’acciaio dove compie un primo tentativo di suicidio. Lo scortano nella base dei marine di Quantico, in Virginia. Per nove mesi resterà connato 23 ore al giorno in una cella due metri per due e mezzo (l’Onu giudicò il trattamento una tortura). Poi il trasferimento nel carcere di massima sicurezza di Fort Leavenworth, Kansas, dove aspetterà il processo. Al momento della condanna, radicalizza la scelta di un’identità femminile. Prima le cure ormonali. Poi chiede di essere sottoposta al cambiamento chirurgico di sesso, ma le è negato. Prova a impiccarsi, la salvano. Comincia lo sciopero della fame nché l’intervento non è approvato. Poi ci pensa Obama. Chelsea Manning è l’eroina transgender che ha svelato le zone grigie della guerra «chirurgica»? Oppure il soldato che ha messo a rischio la vita di commilitoni e informatori, un «traditore ingrato», come ha twittato Trump? Resterà un’attivista anche da libera? Si è scontrata con avversari di¤cili e, senza santi in paradiso, li ha scontti. Forte di una certezza: ogni informazione deve essere alla luce del sole. Ora gli avvocati lavorano alla revisione del processo. In autunno uscirà il documentario XY Chelsea. Potrebbe vincere il Nobel per la Pace. Forse il suo messaggio più prezioso l’ha a¤dato ad Amnesty. «Se tornassi da me teenager, la prenderei per i capelli e le direi che andrà tutto bene e sarà felice. È quello che avrei voluto sentire allora: siamo tutti esseri umani e meritiamo amore».