Vanity Fair (Italy)

CHE GENIO QUEL FALLITO

Da Steve Jobs a Rafael Nadal, tutti i grandi hanno colleziona­to scon itte prima di raggiunger­e il successo che li ha resi famosi. Dell’importanza del «continuare a provarci» parla il nuovo, rivoluzion­ario, libro di CHARLES PÉPIN, ilosofo ed ex sfortunato

- di ALBA SOLARO foto OLIVIER MARTY

Invernodel 1999 a Tarbes, in Francia, semi nale del torneo di tennis Petits As, una specie di campionato mondiale per giovani dai 12 ai 14 anni. Richard Gasquet, che la stampa dell’epoca chiamava «il piccolo Mozart del tennis francese», è un fenomeno. È aggressivo, veloce, perfetto; straccia facilmente l’avversario, un giovane spagnolo di 13 anni. Che si chiama Rafael Nadal. Diciotto anni dopo, sappiamo tutti com’è andata a nire. Nadal ha appena vinto il Roland Garros per la decima volta, ha colleziona­to 15 Slam. E Gasquet? Dopo quella fulminante partenza, è diventato un buon giocatore, ma non un campione. Nella vita a volte va così: perdere è meglio che vincere. Ti sembra un’ingiustizi­a, ma è solo perché devi ancora scoprire che «saper fallire – con talento, con eleganza, con onestà – è più importante che saper riuscire», come mi spiega a–acciato su Skype da Parigi Charles Pépin, losofo francese dai capelli lunghi alla Bernard-Henri Lévy e dallo sguardo vivace. Anche il suo libro Il magico potere del fallimento lo è. Incasella con gusto pop casi celebri, aschi e trion , smacchi e rivincite. All’assistente che gli chiedeva come facesse a sopportare le migliaia di fallimenti mentre stava sperimenta­ndo la lampadina elettrica, Thomas Edison rispondeva: «Non ho fallito; ho portato a termine migliaia di tentativi che non hanno avuto successo». E Miles Davis, ai suoi musicisti terrorizza­ti di sbagliare, ringhiava: «Quando suonate una nota, solo quella successiva vi dirà se sia stata giusta o no». Tra tanti manuali su come avere successo, il libro di Pépin si staglia felice e controcorr­ente. E non è un banale saggio new age su come «sbagliando si impari». «L’idea mi è venuta», racconta, «osservando che in Francia mi presentano sempre elencando i miei successi, mai una parola sui fallimenti: sono un tabù. Negli Usa accade il contrario; hanno l’etica

del fail fast learn fast (fallisci presto, impara presto, ndr), ostentano le loro scon tte quasi più che le vittorie». Pépin si è chiesto come mai non ci siano opere di classici su questo tema, mentre c’è quella che lui chiama «la grande soerenza dei ragazzi nelle scuole francesi, perché questa società stigmatizz­a il fallimento a tutti i livelli. I bambini nlandesi, per esempio, hanno tempo no a nove anni per imparare a leggere. Non so in Italia, ma in Francia anche da adulto ti valutano in base al diploma preso quando vivevi coi tuoi genitori». Che cosa non va con i ragazzi? «Hanno così tanta paura di sbagliare che piuttosto non fanno nulla. Per non dare la risposta sbagliata, stanno zitti. Peccato, perché il fallimento è la maniera umana per capire le cose. Negarlo signi ca anche negare il valore dell’esperienza». La crisi degli ultimi anni ha impoverito il concetto di profession­alità e qualità. Come ci dobbiamo sentire se perdiamo il lavoro o non lo troviamo? «Io non sono il mio fallimento: è importante tenerlo a mente. Un lavoro che nisce è doloroso, si ha l’impression­e di non valere niente, ma non è così. Devi saperti prendere le responsabi­lità per quello che è andato storto, ma anche dissociare te stesso; imparare a distinguer­e tra l’avere fallito e l’essere un fallito. E poi dobbiamo ascoltare quello che l’insuccesso ci dice. Fare come Charles Darwin». In che senso? «Gli studi in medicina all’Università di Edimburgo furono un disastro, lasciò senza laurearsi con disperazio­ne del padre che lo mandò a studiare teologia. Non andò meglio, ma servì a capire che non era la sua strada. Si imbarcò sul Beagle, girò il mondo, scoprì nuove specie, ed è così che diventò Charles Darwin. Il suo esempio è la negazione dell’ossessione americana per cui devi sempre imparare dai tuoi fallimenti. A volte è vero il contrario; non c’è nulla che puoi imparare qua, prova altrove. Le macchine Nespresso, oggi ovunque, mancarono per due volte il loro obiettivo; la Nestlé cercò di imporle ai ristoranti, poi puntò al mercato degli u”ci. Un fallimento costoso dopo l’altro. Tentò un’ultima strada: il consumo domestico. Boom». Che cosa succede se mi ostino a seguire i miei desideri, ma non ho il talento di Serge Gainsbourg, per citare un altro dei suoi esempi? «Il successo di Gainsbourg è il risultato di un doppio fallimento. Il primo è non essere riuscito a fare il pittore come voleva, il secondo è la sua voce: con quel modo di cantare nessun altro ce l’avrebbe fatta! Dietro c’è un meccanismo freudiano: l’opportunit­à mancata, quando riesci in una cosa, ma non è quella in cui sembrava tu volessi riuscire. A volte il fallimento rivela ciò che veramente desideriam­o. La lezione è: meglio fallire restando fedeli ai sogni, che vincere un progetto di cui non ci importa niente». Che cosa è il successo? «Nietzsche diceva che abbiamo tutti la nostra stella danzante, la nostra unicità. Il successo, per dirla con lui, è diventare ciò che sei. C’è chi muore senza avere mai scoperto la propria unicità; bisogna provarci. Sbagliare, provare, riprovare ancora. Come David Bowie, che ha sempre guardato al successo come noi dovremmo arontare le scon

tte: continuand­o a interrogar­si, a cercare». Il concetto di fallimento è assoluto, o cambia nella Storia? «Cambia e cambierà ancora. Pensi agli scenari politici francesi, come Macron sta modi cando una politica che, da Chirac a Sarkozy, ha sempre seguito il principio di precauzion­e, che in Francia è persino nella Costituzio­ne. E manda un messaggio sbagliato: ci sembra sempre la più sicura delle opzioni, e torniamo ai bambini che tacciono per non dare la risposta sbagliata. Si può vivere tutta la vita senza osare, compiendo solo le scelte che ci sembrano ragionevol­i. Ma se fosse così, Elon Musk non avrebbe mai inventato la Tesla». Qual è, tra quelli che ha raccontato, l’insuccesso per lei più bello? «Adoro Andre Agassi, la sua disfatta è epica. Ne ha passate di ogni, dal divorzio alle droghe, la malattia e la caduta. Era il numero 1 del tennis mondiale, è crollato, ed è lì che si è chiesto “che cosa voglio veramente, cosa desidero”. La scon tta l’ha spinto a tornare in cima, e i successi ottenuti dopo le bastonate, ha detto una volta, hanno un sapore che le prime vittorie non hanno». Ai tempi dei social media, scon tta e successo si misurano in follower e like? «La vera domanda è: questa visibilità è rappresent­ativa di ciò che sei veramente, della tua unicità? Se sono solo la visibilità della mia mediocrità, a cosa servono tanti follower? È un meccanismo che si basa sulla necessità tutta contempora­nea di ammirazion­e, e lo capisco. Ma è la singolarit­à che va ammirata. E il modo giusto di esprimere la propria unicità è accettarsi. Fallire a modo tuo è sempre meglio che fallire come tutti gli altri, meglio che avere successo come tutti gli altri! Ammiriamo tutti Steve Jobs, licenziato dalla Apple creata da lui, non solo per come è tornato in cima, ma perché lo ha fatto a modo suo». Qual è il fallimento che le è stato più utile? «I disastri sentimenta­li da ragazzino. C’era una ragazza che mi piaceva così tanto che l’avevo idealizzat­a, non osavo parlarle. Un doppio fallimento: avevo paura di come sarebbe andata, e di conseguenz­a neanche ci provavo. Una ventina di anni fa ho provato a diventare romanziere, è stato un asco, ma è l’esperienza che mi ha poi portato a decidere di studiare loso a. Ed eccomi qua». Possiamo dire che il fallimento è democratic­o? Che nel non riuscire siamo tutti simili? «Sì, perché abbiamo tutti in comune una cosa: prima di imparare a camminare abbiamo fallito. Il pony riesce a camminare un’ora dopo essere nato perché lo guida l’istinto, noi ci mettiamo molto di più. Però poi andiamo anche in bicicletta e guidiamo l’auto. Non solo. L’essere umano sa che la felicità assoluta non è possibile. Ma senza le nostre delusioni, non conoscerem­mo neppure la gioia. Per questo il fallimento è rivoluzion­ario».

IN FRANCIA, MA ANCHE IN ITALIA, PARLARE DEL FALLIMENTO È UN TABÙ. IN AMERICA OSTENTANO LE SCONFITTE QUASI PIÙ DELLE VITTORIE»

 ??  ?? FILOSOFIA À PORTER Charles Pépin, 44 anni, ilosofo francese, professore presso l’Istituto di Studi Politici di Parigi, è autore del Magico potere del fallimento.
FILOSOFIA À PORTER Charles Pépin, 44 anni, ilosofo francese, professore presso l’Istituto di Studi Politici di Parigi, è autore del Magico potere del fallimento.
 ??  ?? IN LIBRERIA Il magico potere del fallimento di Charles Pépin (Garzanti, pagg. 192, € 15; trad. E. Lana) esce il 29 giugno.
IN LIBRERIA Il magico potere del fallimento di Charles Pépin (Garzanti, pagg. 192, € 15; trad. E. Lana) esce il 29 giugno.

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