Dove bolle il ghiaccio
Meno di 10 anni fa l’ISLANDA era un Paese fallito. I 330 mila abitanti temevano di emigrare. Poi, grazie al più molesto dei suoi 130 vulcani, è scoppiato il boom turistico. Ora che tutti la vogliono, un altro pericolo minaccia la meraviglia naturale del N
Nel mezzo del campo di lava, il telefono all’improvviso si scarica. Il mio, ma anche quello del mio vicino e dei due signori più in là. Pochi passi e ogni collegamento viene meno. Non compare più nemmeno il gps. «Ma non siamo nel Paese superconnesso dove ognuno ha una app anche per mungere la mucca?», chiedo a Lars in leggera apprensione. L’autista che ci ha presi in consegna si sta lasciando Reykjavík alle spalle su una strada già così spettacolare, che in eetti del WhatsApp ti dimentichi subito. Se ti giri a guardare indietro il paesaggio è di bellezza così totale che il lunotto posteriore è uno schermo del cinema. «È così, siamo molto connessi, però l’attività geologica dell’Islanda è in fermento perpetuo: il centro della Terra è più vicino e ci fa qualche scherzo. Ma il segnale del telefono tornerà, piuttosto fate attenzione a non perderlo nelle pozze calde, cerniere sempre chiuse, perché non ne abbiamo ancora inventati di termoresistenti all’attività geologica», risponde contento. Gli islandesi sono giustamente orgogliosi della loro isola tanto speciale, e non lo nascondono. Soprattutto perché nel 2008 il Paese era al tracollo economico, ucialmente fallito per la crisi nanziaria più grave della nostra era economica: un approccio sbagliato delle tre maggiori banche nazionali alla crisi globale e i 330 mila tranquilli residenti, con i loro mutui disinvolti a zero anticipo di quegli anni, si ritrovarono davanti il baratro, molti temevano di dover emigrare in Norvegia o in Danimarca. Invece meno di dieci anni dopo quelle case quasi perdute valgono oro: l’Islanda non solo è risorta, ma è un caso di scuola senza precedenti. E per merito di una cosa sola: il boom del turismo. Secondo Kristján Hreinsson, losofo e poeta del vivacissimo mondo intellettuale islandese – terra di lettori accaniti: nelle tante librerie della capitale fatichi a entrare a ogni ora del giorno e della notte, che in estate coincidono: 22 ore di sole –, nel 1950 visitarono l’isola 4.400 persone. Nel 1990 quei pionieri diventarono 14 mila, no ai circa 2 milioni del 2016. Pare che il 2020 sarà l’anno del traguardo: 3 milioni di stranieri in visita, 10 volte gli abitanti, un’enormità. Nelle circa quattro spettacolari ore necessarie ad arrivare a Nord, no
alla remota Tröllaskagi, «la penisola dei giganti» che è la nostra meta, ti chiedi come mai tanta gente da tutto il mondo si sia mossa tutta insieme e quasi all’improvviso verso un’isola sub-artica praticamente deserta, dove, tolta una brevissima estate (da giugno a metà agosto), ti trovi immerso in una sorta di notte perenne, piovosa, nevosa, e in una pentola sismica dove le tensioni della crosta terrestre si scontrano di continuo come un pacchetto di mischia tra giganti di pietra. E dove 130 vulcani attivi – cioè che hanno eruttato negli ultimi 10 mila anni, la geologia ha i suoi tempi – , ti tengono in scacco continuo con i loro capricci, con un «serbatoio» del magma che si trova no a 400 chilometri sotto di noi, con la lava solidicata che in alcuni casi arriva da oltre 2.880 km sotto, per noi profani della scienza come dire il Centro della Terra. Un Paese, inne, dove un caè può costare anche 7 euro e una cena discreta in città tranquillamente 100 euro a persona. Dettaglio non trascurabile: non siamo certo nella meta più conveniente del mondo. La risposta, sorprendente, sta proprio nei vulcani. O meglio «nel vulcano». Quello con il nome impronunciabile (Eyjafjöll, non è poi così impossibile come parola, ma forse per un piccolo errore mediatico venne chiamato Eyjafjallajökull, che non è il vulcano ma il ghiacciaio che lo ricopre). Il 20 marzo 2010 l’Eyjafjöll ha paralizzato il traco aereo di tutto il mondo emettendo una nuvola di cenere che nessuno dimentica. L’incidente, che i viaggiatori bloccati maledivano in quei giorni, non fece vittime né feriti. «Io la guardavo allontanarsi bevendo tranquillo il caè», mi racconta un residente. Ma le telecamere dei telegiornali assaltarono il Sud dell’Islanda e i suoi vulcani, e il mondo si accorse di quanto fosse incredibilmente bella. Era fatta. Aggiungendo la simpatia globale ottenuta dalla Nazionale di calcio agli Europei 2016 e il singolare grido corale di vittoria, il «geyser sound» messo in scena dai tifosi per festeggiare l’exploit della squadra vittoriosa nientemeno che contro la «vicina» Inghilterra. Gli el dei ghiacci contro la corona inglese: l’operazione simpatia dell’Islanda era compiuta. Tempo di diventare famosi, e per i placidi islandesi, la cui polizia è celebre per non essere armata, il crimine nazionale ai minimi europei e la parità di genere una realtà, con un legge che dal 30 marzo di quest’anno obbliga le aziende alla pari retribuzione per uomini e donne, ricominciano le preoccupazioni. Il nemico del paradiso naturale è la clamorosa marcia indietro sul cambiamento climatico degli Stati Uniti. Il negazionismo sui pericoli del global warming, come spesso capita, rischia di colpire per primi proprio i Paesi che tutelano l’ambiente più degli altri, e da più tempo. Con oltre il 10% del territorio coperto da ghiacci perenni, l’Islanda fronteggia da tempo un problema di scioglimento che sta già cambiando anche il neonato turismo. Che i
ghiacciai si stiano sciogliendo non è un’opinione, ma un dato di fatto. Basta guardare le immagini di Ragnar Sigurdsson, il fotografo che per oltre 30 anni ha scattato «ritratti» di ogni ghiacciaio, valle, laguna di Vatnajökull – il più grande parco nazionale d’Europa: 12 mila km quadrati. Già dal 2008 l’Islanda ha avviato un progetto di conservazione della natura unico al mondo: il luogo raccoglie una varietà di elementi naturali e climatici tra lingue glaciali, energia geotermale e vulcani che è una cartina di tornasole immediata delle conseguenze del clima. Le foto che 20 anni fa mostravano i ghiacciai circoscritti in alto, dove devono stare perché il usso delle cose sia giusto, virtuoso e regolare come ai tempi del primo vichingo arrivato qui in barca (nell’anno 874, ogni islandese ve lo ricorderà), ora rivelano una vera «zuppa di ghiaccio», con iceberg che invadono le lagune e il mare no a minacciare i ponti della delicata rete stradale islandese. «Vedi quegli alberi laggiù, quegli abeti bassi? Sono giovani, li abbiamo piantati da poco», mi dice Lukka, che vive in un punto mozzaato della penisola di Troll, in alto vicino all’oceano, dove atta cavalli ai turisti. «Li piantiamo contro il global warming. Qui non avevamo alberi, c’è troppo vento. Ma ora visto come stanno andando le cose ne abbiamo bisogno». L’idea di piantare alberi in previsione del peggio è del governo. Ma non si parla di ecoincentivi: hanno semplicemente detto alla gente che gli alberi servono per salvare i ghiacciai, regalato un po’ di concime, e loro hanno riempito le montagne di questo vivaio verde chiaro. «No, non riceviamo soldi, e perché mai? Gli alberi sono belli, chiunque capisce che ci faranno bene». Non proprio chiunque, verrebbe da dire a Lukka. Mentre mi fa ciao con la mano, il cavallo Elva su cui mi ha piazzata si lancia sul costone mozzaato. Nemmeno Brad Pitt in Vento di passioni, il mio caposaldo personale di perfezione estetica nel connubio uomo-ambiente, deve essersi sentito così libero con i capelli al vento. La cavalcata con Elva è solo una piccola parte del mio programma alla Deplar Farm. Aperto meno di un anno fa da un operatore turistico di eccellenza americano, Eleven Experience (elevenexperience. com), il lodge è ricavato da una fattoria isolata al centro della valle di
Fljot. Avamposto senza concorrenza in Islanda, il quartier generale dell’avventura islandese non è a caso nella penisola di Troll, che o re pesca, umi, discese in kayak e trekking degni di un documentario sul meglio della vita praticamente dietro casa. All’esterno il lodge sembra la grande casa di un pastore particolarmente ordinato, che ha il prato sul tetto come le case tradizionali, per non alterare il paesaggio, ma all’interno rivela suite con camini, progettate da architetti, opere d’arte, biliardi, biliardini e divani ovunque, una spa a cinque stelle con acqua calda geotermale direttamente dal sottosuolo, un ristorante dove Andrea e Alex, coppia di giovani chef, cucinano prelibatezze nordiche. Le colazioni sontuose di pancakes alle bacche, burro montato, pane alla birra, le ottengono saccheggiando le fattorie vicine per uova, burro e ingredienti dalla bontà primitiva. Alla Farm c’è per no una vasca di galleggiamento isotermica, e le
nestre sono enormi vetrate su questa luce unica, che nemmeno credevi potesse esistere, sempre tersa ma luminosa come un fuoco acceso in cielo. Adesso, in giugno, il sole non tramonta mai, e la sauna vichinga esterna, ricavata sotto il prato, è identica alla casa dell’Hobbit del lm, e ha vicino una piscina con un bar interrato anche lui, da dove, in stagione, si osserva l’aurora boreale con il bicchiere in mano. Chissà che cosa avranno pensato i vichinghi la prima volta che l’hanno vista? Ti chiedi in piena regressione da saga nordica, inevitabile in certi scenari. «I vichinghi non notavano nemmeno le northern lights», mi dice Krummi, un ragazzo dello sta che passa dalla buca del bar all’antropologia nello stile safari della Farm. Come farà a saperlo? «Il fenomeno delle luci qui è comunissimo, potrebbe essere in corso anche adesso ma senza il buio, ovvio, non lo vediamo. Quello che sconvolse i vichinghi è il tuono, rarissimo. Qui è troppo umido per i tuoni, puoi non vederne uno in tutta la vita. Per questo Thor è il dio del Tuono, per i nostri antenati era una cosa pazzesca, inspiegabile». La Deplar Farm è una sorta di safari artico (il Circolo Polare è a meno di 100 km dalla costa): le attività outdoor sono incluse nel programma, qualunque cosa tu voglia fare una guida professionista esperta del luogo si assicura che tu la faccia al meglio anche se, come nel mio caso, il sico non è allenato agli sport estremi. Grazie al cielo non è inverno e non si scia con l’elicottero che ti lascia in cima al ordo sull’oceano, ma Mike, del Colorado, il nostro Virgilio nella discesa all’inferno-paradiso di fuoco islandese, ci porta a Grjótagjá: una vasca di acqua bollente dentro a una spaccatura sismica. Ci si cala con una corda appesa come in un crepaccio, in una luce azzurra surreale che scintilla dall’alto nel buio, quasi inquietante, ma l’acqua è calda e minerale, il piacere assoluto. Domani vado a piantare un albero.