IL CERVELLO IN FUGA ORA È CONNESSO
La musica è nel suo Dna, però un certo Bernstein gli consigliò di cambiare piano. Così CAMILLO RICORDI pensò prima allo spazio, poi un diabete in famiglia l’ha portato alla ricerca. All’estero, ma adesso l’eccellenza si trova anche in Italia
Camillo Ricordi ha un cognome che evoca subito la musica – e la sua è proprio «quella» famiglia (le celebri edizioni musicali Ricordi vennero fondate a inizio Ottocento) –, ma in realtà è un luminare di fama mondiale nel campo del diabete. Una malattia di cui sorono nel mondo 400 milioni di persone. Lo incontriamo a uno dei cenacoli organizzati da Arturo Artom, appuntamenti mensili ai quali l’imprenditore invita talenti nei vari campi che si raccontano e scambiano visioni sul futuro. Milanese d’origine e di formazione, Ricordi è in Italia di passaggio. Da molti anni, infatti, dirige il Diabetes Research Institute (Dri) e il Centro trapianti di cellule all’Università di Miami. Porta il suo nome la tecnologia che ha permesso di isolare cellule che producono insulina dal pancreas umano (isole pancreatiche), utilizzata ormai in tutto il mondo. La sua sda oggi è quella di svilupparne di nuove, sempre più avanzate, per rivoluzionare la vita dei pazienti che dipendono dalla somministrazione quotidiana di insulina, mentre dal punto di vista della ricerca sta studiando il legame tra inammazione, malattie autoimmuni e malattie croniche degenerative. Suo padre è Giovanni Carlo Emanuele, detto Nanni, scomparso nel 2012, sesta generazione dei Ricordi, che fu produttore, negli anni Sessanta, di alcuni dei grandi della musica leggera italiana, da Ornella Vanoni a Gino Paoli, a Enzo Jannacci. Ma a lei la musica non interessava? «Sono cresciuto in sala di registrazione e alla Scala: da piccolo dormivo nel nostro palco, ma anche nel camerino di Carla Fracci, la spiavo mentre si pettinava i capelli lunghissimi, sembrava un angelo. Suonavo il pianoforte ma fui salvato da Lenny (Leonard Bernstein, il grande direttore d’orchestra, ndr), mio padrino, che venne a sentirmi a un concerto quando avevo 12 anni e decretò: “Considerati libero di fare qualcos’altro”». Avrebbe potuto seguire le orme di suo padre e fare il produttore. «Meglio di no. Un giorno venne a casa nostra Lucio Battisti: timidissimo, voleva far sentire i suoi pezzi a mio padre che, con mia grande sorpresa, mi chiese di restare. Quando Lucio andò via, gli dissi: “Come facciamo a dirgli che non è commerciale?”. Per fortuna mio padre ne aveva riconosciuto il potenziale». Quando si è accorto di avere altri talenti? «Da ragazzo ero molto aascinato dalla politica, anche perché mio padre era un comunista convinto. Credo di aver fatto la mia prima manifestazione a 12 anni, a 14 ero spesso in occupazione, a 16 chiudevo il preside nel suo u¢cio. L’abbandonai l’ultimo anno di liceo, per concentrarmi sullo studio: volevo iscrivermi alla facoltà di astronomia e astrosica e mi serviva il massimo dei voti». Perché poi ha scelto medicina? «L’estate dopo la maturità ho letto il libro The Understanding of the Brain di John Eccles e mi sono accorto che il cervello era molto più interessante dello spazio. Mia cugina si era ammalata di diabete, quindi decisi che avrei dedicato la mia vita alla cura di quella malattia. Mi accorsi presto che sul cervello in Italia eravamo indietro, quindi virai sui trapianti. Avevo già in testa quello che sarebbe diventato il “metodo Ricordi” per isolare le isole pancreatiche, ma mancavano i fondi e i miei capi al San Raaele mi consigliarono di andare alla Washington University di St. Louis, che negli anni Ottanta era all’avanguardia in quel campo. Dopo un anno, arrivò la mia grande occasione, un pancreas un po’ deteriorato: non avrebbero potuto trapiantarlo e decisero di scartarlo. Io aspettai che andassero via tutti e lo recuperai dalla spazzatura. Passai la notte da solo a provare la nuova tecnica. Riuscii a isolare un numero mai visto prima di isole pancreatiche perfette. Quando il mio capo le esaminò al microscopio chiamò tutto il centro a vederle». I trapianti si eseguono solo nei casi di diabete più grave? «Sì. C’è il diabete di Tipo 1, chiamato anche “giovanile” perché colpisce soprattutto bambini e adolescenti ma non solo, di cui sore il 10 per cento dei malati. Il 90 per cento ha invece il diabete di Tipo 2, cosiddetto “alimentare”. I casi più gravi del primo tipo richiedono il trapianto perché, nella forma autoimmune, dove tutte le cellule che producono insulina vengono distrutte, anche le più moderne tecniche di somministrazione di insulina non sempre riescono a prevenire pericolosi episodi di ipoglicemia (lo zucchero nel sangue crolla all’improvviso con gravi conseguenze, ndr). A limitare nora il numero di trapianti è stato l’obbligo di assunzione di farmaci antirigetto, dannosi per la salute. Oggi stiamo sviluppando tecnologie di sostituzione biologica del pancreas endocrino che non li richiedono. La nuova tecnologia dei trapianti potrebbe quindi essere in futuro per tutti». Negli anni passati a St. Louis faceva ricerca a tempo pieno, ma nei weekend si divertiva nelle feste più esclusive di New York. «Molte a casa di Earl McGrath, l’altro mio padrino, e di sua moglie Camilla Pecci Blunt. Tra gli ospiti c’erano spesso Audrey Hepburn e Isabella Rossellini, Mick Jagger e Jerry Hall, Anjelica Huston e Jack Nicholson, Harrison Ford e anche Andy