Il mondo va veloce
Proprio come lei: ADELINA VON FÜRSTENBERG insegue da bambina la passione per l’arte, e oggi cura una mostra dedicata all’Africa, un continente in movimento
Con Adelina von Fürstenberg si corre, da fermi, girando tra Paesi e culture, in un dialogo d’arte e questioni sociali, fermandosi solo sulle risposte, che giungono rapide, come lei. La curatrice di origini armene con una storia di famiglia di grandi architetti arriva il 27 giugno al Museo Pac di Milano con fotograe, dipinti, installazioni, sculture, video e performance di Africa. Raccontare un mondo (no all’11 settembre). In mostra: «L’Africa di oggi e il suo modo di vedere. Tradizioni intrise di contemporaneo». Nelle maschere fatte con bidoni della benzina, la trama è umida di petrolio, portatore di ricchezza e di morte: «Per gli africani l’arte è narrativa. Da loro ci sono i griot, che tramandano storie. Vorrei esserlo anch’io, come curatrice». Sono già stati molti i racconti messi in scena dalla curatrice attratta dal rischio della libertà: «Preferisco sbagliare da sola che rinunciare a quello che sento giusto». Ancora studentessa, ha fondato e diretto il Centro d’Arte Contemporanea di Ginevra. Poi ha allestito monasteri, piazze, isole e parchi. Ha diretto Le Magasin di Grenoble, organizzato spettacoli con John Cage, Laurie Anderson, Philip Glass, Marina Abramović e Robert Wilson. Quando è passata dalla Biennale di Venezia ha vinto premi per i suoi padiglioni, in mezzo altre mostre e molto lavoro per l’Onu: Dialogues de Paix per il 50° anniversario, la fondazione di Art for The World, i 22 cortometraggi sui diritti dell’uomo nel 2008. Come si fa? «Faccio dieci cose alla volta. Magari anche male, ma le faccio». Von Fürstenberg non aspetta, nemmeno gli sponsor: «Non so fare la corte». Totale libertà, un lusso: «Che si paga caro». Però lei trova il modo, da sempre: dietro la sua corsa libera c’è una bambina iperattiva che scappa verso il futuro: «Non mi lasciavo prendere». Negli anni di scuola, già impegnata a cambiare Paesi e imparare lingue, il movimento era risucchiato dall’adattamento. Poi, il viaggio dentro l’arte, per coltivare «Un museo senza mura, che ho continuamente bisogno di cambiare». Le hanno detto: «Calmati, non siamo a New York». Lei invece lo era, immersa nel traco della sua storia scandita da tempi limitati, quelli con un padre malato di cuore e una madre insoerente: «Non sono stata educata alla pazienza. E non ho mai ricevuto complimenti, gli altri erano sempre migliori». Allora si è messa in moto perpetuo verso «Cose sempre più dicili, così vivo in pace». A casa rallenta: «Mio marito è l’uomo più paziente che conosco. Con lui e il gatto, sto bene anche ferma». L’incalzare ha rallentato negli anni? «È aumentato. Basta dare pillole ai bambini iperattivi. Invece di rimbambirli, che li lascino fare». Ha mai paura? «Posso avere dubbi, ma non mi fermo». Unica paura, di ricevere calci dagli asini e cavalli che circondavano le sue vacanze d’infanzia. «Non sono un chirurgo che salva le vite, stiamo parlando del piccolo mondo dell’arte, di fatti relativi». I suoi fatti: Scienze politiche, diritti umani, il linguaggio dell’arte, ltrato da una certa logica di famiglia di architetti, dalla visione illuminata da origini armene «legate a qualcosa che mi tocca a livello universale», l’intuito che la avvicina agli artisti: «Per me loro sono la natura». Tutto tranquillo, velocità esclusa. Adelina mangia veloce? «Sono circondata da gente che mangia lentissimo».