UNA SUORA FEMMINISTA PER LA CATALOGNA
Affascinante, progressista, la monaca di clausura Teresa racconta la lotta per l’indipendenza da Madrid
SENZA VELO Teresa Forcades i Villa, monaca, 51 anni, laureata in Medicina e Teologia. In alto, corteo indipendentista catalano.
Si può dire che una suora è affascinante senza sembrare blasfemi? Correremo il rischio, perché suor Teresa Forcades i Vila, monaca benedettina catalana e teologa femminista, lo è. Affascinante, diretta e coinvolgente, rompe subito gli schemi: «La volontà di Dio non è sessista. E allora perché dire no al sacerdozio femminile o al matrimonio dei preti? Io sono contraria anche alle leggi che criminalizzano l’aborto». La prima causa che combatte ora è per l’indipendenza dalla Spagna della regione della Catalogna, per cui il 1° ottobre è previsto un referendum, contestato da Madrid. La Corte costituzionale l’ha dichiarato «illegale», il parlamento catalano di Barcellona vuole andare avanti comunque. La sua sincerità è disarmante, con ironia: «Chiesi di entrare in convento e la badessa mi rise in faccia. Domandò da quanto ci pensavo. Risposi: una settimana. Scoppiò di nuovo a ridere». Da vent’anni è una monaca di clausura del monastero Sant Benet de Montserrat, a 60 chilometri da Barcellona. Da due non ha il velo per un periodo di vita fuori dal convento, per la causa separatista. Poi tornerà «a casa». È tra i fondatori del movimento progressista Proceso constituyente, vuole cambiare l’economia di mercato e lasciare la Spagna. Perché una suora si butta in politica? «Per il mio Paese. È un momento eccezionale. Nel mondo la democrazia è in crisi e crescono voglie di dittature, magari blande. In Catalogna, al contrario, c’è desiderio di impegno e partecipazione comune». Siete una locomotiva economica. Nel referendum ci sono motivazioni «egoistiche»? «Forse qualcuna, ma i gruppi come la vostra Lega sono spariti. I partiti indipendentisti più forti sono di sinistra. Io sono nazionalista e solidale, contro la scomparsa delle diversità tra i popoli. Lo spiegava bene la filosofa Hannah Arendt: i totalitarismi, per opprimere gli individui, li devono isolare. Se sei radicato in un gruppo, una nazione, una comunità religiosa, non ce la fanno». È conosciuta come monaca controcorrente anche all’estero. Come nasce la sua fede? «La mia famiglia era cattolica, di facciata. Alla prima comunione, il prete mi chiese di recitare il Padre Nostro, risposi: “Cos’è?”. A 15 anni lessi il Vangelo e fu uno choc, ero entusiasta e indignata. “Perché nessuno mi ha detto che esiste un Dio così?”, dicevo. Cominciai a frequentare una parrocchia che accoglieva i senzatetto nella zona del porto di Barcellona. Ero una ragazza curiosa, impegnata politicamente, pacifista ed ecologista. Volevo diventare medico». Poi che successe? «Per studiare tranquilla, andai nel monastero Montserrat: restai affascinata dalle monache. Erano centrate sulle cose importanti, su Dio. Ma restavo diffidente. La badessa mi chiese di parlare dell’Aids: scelsi la provocazione e di raccontare alle suorine degli amici gay emarginati dalla Chiesa. Mostrarono un’apertura che mi spiazzò. Non ragionavano dogmaticamente “per temi”, si preoccupavano delle persone. Mi sono detta: anch’io voglio vivere così».