Vanity Fair (Italy)

ADDIO A SAM, CHE CI PROVAVA SEMPRE

Warren Beatty scon itto in palestra. Jackson Pollock appeso al contrario. In uf icio senza orari. S.I. NEWHOUSE, una vita alla guida della nostra casa editrice, nei ricordi del giornalist­a che per 25 anni ha diretto Vanity Fair Usa

- di GRAYDON CARTER

Samuel Irving Newhouse Jr., per tutti «Si», presidente emerito di Condé Nast, è morto il 1° ottobre a New York, a 89 anni. Erede di un gruppo editoriale che includeva riviste come Vogue e Glamour, ha costruito – con scommesse giuste e devozione – il suo impero, che conta oggi 128 pubblicazi­oni tra cui Vanity Fair, il New Yorker, GQ, Wired, Bon Appétit. Nel 1980 ha aperto l’azienda di famiglia ai libri acquistand­o Random House, con annessa la casa editrice Alfred A. Knopf.

Si era mattiniero, andava al lavoro prima dell’alba. Pranzava a mezzogiorn­o in punto. Ai tempi in cui ancora fumava, spesso faceva qualche tiro tra un boccone e l’altro. Lasciava l’ufficio verso le 15.30. Andava in palestra, leggeva per un’ora o due e poi, con la moglie Victoria, andava al cinema o all’opera. Rispettava la sua routine in palestra in modo religioso. Un giorno stavo bevendo un drink con Warren Beatty a Los Angeles, quando arrivò Si con Victoria. Warren andò al loro tavolo e disse che qualche settimana prima lui e Si si erano allenati nella stessa palestra a New York, e che non era riuscito a stargli dietro. È stata una delle tante volte in cui ho visto Si risplender­e di gioia. Al lavoro vestiva con una polo blu, pantaloni di cotone, mocassini marroni e una vecchia felpa del New Yorker. Se doveva, sapeva però essere elegante. Una volta ho visto un abito blu con una camicia celeste e una cravatta in maglia blu scuro su un appendiabi­ti nel suo uŒcio. Quando il dovere chiamava, era pronto. Molti anni fa, quando non lo conoscevo bene, volevo chiedergli un consiglio. Mi disse di passare da lui alle sette della mattina. Il suo uŒcio era una stanza grande e spartana, arredata con mobili di legno chiari e una moquette bianca. La sua assistente ci portò dei bicchieri alti e sottili pieni di ca’ellatte freddo. Parlammo per una quindicina di minuti. Mentre me ne stavo lì in piedi e iniziavo a mettermi il cappotto, urtai il mio bicchiere con il ca’è e vidi con orrore il contenuto del bicchiere versarsi sulla moquette. Mi profusi in scuse e provai ad asciugare con il mio fazzoletto. Lui mi mise una mano sulla spalla: «Non preoccupar­ti, mi capita di continuo». Si era sempre pronto a scommetter­e su cose e persone in cui vedeva un potenziale. Spendeva quanto andava speso. Ma stava attento a ciò che ne ricavava. Le riviste sono progetti costosi, vivono grazie alla pubblicità venduta. Ogni mese, Si sistemava sulla scrivania i nuovi numeri di tutti i suoi giornali e contava a mano le pagine di pubblicità con uno di quei ditali di gomma che usavano un tempo i cassieri in banca per contare le banconote. Pranzavo con lui ogni due settimane. Imparai a prepararmi agli incontri, perché era raro che volesse parlare di a’ari. Era molto più interessat­o all’arte e al cinema, e ai pettegolez­zi che arrivavano da Washington, dall’Europa o dalla West Coast. Pranzare con Si signižcava essere colpiti da una raŒca di domande. Se gli chiedevi una cosa, formulava la risposta lentamente, aspettando che nella sua mente prendesser­o forma le parole giuste. Nelle centinaia di pranzi e cene condivisi, non mi ricordo che abbia mai detto qualcosa di a’rettato o male informato. Era fedele ai direttori. Nei primi anni, la mia gestione di Vanity Fair è stata abbastanza traballant­e. Ma se ha avuto qualche dubbio sulle mie capacità, non l’ha mai dato a vedere. Per gran parte degli anni in cui Si e Victoria sono stati a Los Angeles per la festa degli Oscar di Vanity Fair, il produttore David Ge’en organizzav­a una cena in loro onore. Una volta, Ge’en stava facendo visitare a Si la casa di Beverly Hills che aveva comprato dagli eredi di Jack Warner. Si fermarono davanti a un Jackson Pollock rettangola­re appeso in verticale accanto alla cucina. Si gli chiese dove l’avesse preso. «L’ho comprato da te», gli rispose. Si lo guardò di nuovo e capì che, quando era stato suo, lo aveva appeso in orizzontal­e. Malgrado la ricchezza, Si viveva in modo semplice e non amava l’ostentazio­ne. Un giorno avevamo pranzato insieme e all’uscita c’era il diluvio. Trovammo un taxi e, anche se dovevamo fare pochi metri, dissi al taxista che gli avrei dato 15 dollari. Di colpo mi resi conto di non avere soldi. Chiesi a Si, e mi bisbigliò che anche lui non ne aveva. All’arrivo, dissi al taxista che sarei corso in uŒcio e gli avrei dato i 15 dollari più 5 di mancia. Ci pensò su qualche secondo, poi si girò verso di noi e disse: «Ok. Ma il piccoletto deve restare in macchina».

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