COME È DURA L’AVVENTURA
Capolavori annunciati e Palme d’oro: all’estero fanno sul serio. Tra Campillo e Akin, il lotto degli s idanti per l’Oscar di quest’anno è quanto mai competitivo, agguerrito e di valore indiscutibile
Tutti gli anni riecco i Giochi senza frontiere. Non ce ne frega niente però siamo qui a tifare preventivamente per il nostro cavallo anche se è zoppo, a scoprire che c’è una cinematogra a pure nello sprofondo della Tasmania, a sospirare quando poi vince – come accadeva ai Giochi, appunto – San Marino. Quest’anno la corsa all’Oscar per il miglior lm straniero (no, in lingua straniera: è un dettaglio che tornerà utile più avanti) è ancora tutta aperta, ma è già di enorme interesse nazionale. Anche se no, non abbiamo il cavallo più forte. A Ciambra di Jonas Carpignano è bello, è alto, è griato: il produttore esecutivo è Martin Scorsese, che ormai vale come «Quentin Tarantino presenta». Ma saprà conquistare i cuori dei vecchietti di Hollywood? Un regista arrivato anni fa vicinissimo alla shortlist, e cioè la selezione di 9 titoli poi falciati a 5, mi ha detto: «Tanto quelli i lm manco li vedono». Si comincia dalla Svezia, che porterà sull’aereo per L.A. la Palma d’oro vinta all’ultimo Festival di Cannes. The Square di Ruben Östlund è, come il precedente Forza maggiore, un assai lucido trattatello su questi tempi dove conta più la rappresentazione sociale (social?) delle relazioni, delle emozioni, di
tutto il pieno della vita. È molto europeo, forse troppo: i dolori del giovane direttore del museo d’arte contemporanea di Stoccolma fregheranno a qualcuno laggiù a Beverly Hills? La Francia risponde con un purosangue: 120 battiti al minuto di Robin Campillo, già Gran premio della giuria a Cannes. Tag: omosessualità, amore, Aids, amicizia, volti giovani e belli, morte, e anche gli anni ’90, che sono l’assoluto trend di stagione. Sul fronte recitazione c’è Diane Kruger, Palma a Cannes per In the Fade di Fatih Akin. È la prima volta che recita in tedesco, sua lingua madre. Già si sprecano gli aggettivi, su tutti: intensa. Anche lì terrorismo, lutto (e conseguente elaborazione del), vendetta, rinascita. Un cocktail micidiale. Altra performance nominabile, con tam tam che cresce di festival in festival, è quella di Daniela Vega, transessuale sullo schermo e nella vita, in Una donna fan- tastica di Sebastián Lelio (Cile). Per gli Stati Uniti gioca (quasi) in casa Angelina Jolie, che però ha girato il suo Per primo hanno ucciso mio padre (su Netflix) in Cambogia e dunque in cambogiano. Ma il pathos ricattatorio da madonna dei poveri della regista non è piaciuto a tutti i critici: «La storia signi cherà molto per Jolie, ma niente di niente per noi», scrive il Los Angeles Times; «Immagini da cartolina, emozioni che dovrebbero nascere solo dai faccini tremanti dei bambini protagonisti», liquida, parafrasando un po’, il New Yorker. I piccoli vessati dai Khmer rossi forse non bastano. Ma nelle liste nisce di tutto, dall’Estonia al Kosovo, dal Lussemburgo al Nepal. Salta all’occhio Samuel Maoz, regista dell’israeliano Foxtrot: col precedente Lebanon Leone d’oro a Venezia, con quest’ultimo l’argento. E spunta per l’Austria il maestrissimo Michael Haneke, ma il suo Happy End non è bello come Amour (premiato nel 2013), anche se ne è il seguito ideale. Scorrendo le «predictions», che cominciano a circolare non appena nisce la notte al Dolby Theatre, un altro titolo è ricorrente: Call Me by Your Name, Chiamami col tuo nome, di Luca Guadagnino. Non candidabile tra gli stranieri perché è stato girato nella sua Crema, sì, ma in inglese, su copione di James Ivory dal romanzo di André Aciman. Nelle categorie «americane» al momento è ben piazzato ovunque: miglior lm, regia, sceneggiatura non originale, attore protagonista (il giovane Timothée Chalamet, ora sul set con Woody Allen), attore non protagonista (Michael Stuhlbarg). Se il nostro cavallo ai Giochi, tra shortlist e cinquine, non dovesse arrivare alla ne della corsa, ne abbiamo già un altro su cui puntare.