CHI SI FERMA NON È PERDUTO
Nel suo nuovo ilm CLAUDIA POTENZA è una madre incline all’impulsività. Nella vita reale invece sa riflettere: «L’istinto inganna e non credo che si debba per forza premere sull’acceleratore»
D'essere cresciuti lo si può capire a tratti. O d’improvviso, in una volta sola. Un giorno come gli altri. Al semaforo. «Ero in prima linea, è scattato il verde e io invece di partire sono rimasta ferma. La gente in la, dietro, si dannava attaccandosi ai clacson, levando bestemmie al cielo. Ma a pochi metri, proprio al centro dell’incrocio, c’era un ingorgo. E a spingere sull’acceleratore avrei solo peggiorato la situazione. È stato lì che ho avuto chiaro che non per forza bisogna buttarsi, farsi avanti, se non ha un senso, se con quell’atto non risolvi niente. Se è salva la coerenza, puoi sempre fregartene del giudizio degli altri. Di quel che pensano, urlano e vorrebbero». Claudia Potenza dice di essere nata «irrequieta e ribaltante», ma oggi ha una pacatezza nel parlare che sembra solo sconsacrare il suo cognome. A Roma, nella casa bianca in pieno Trastevere che ha ristrutturato con le sue mani, ci porta dentro a Nove lune e mezza, l’opera prima sull’essere o non essere madri della sua amica Michela Andreozzi, in cui lei – che ha lavorato con Ferzan Özpetek (Magni ca presenza) ed è stata Agnese Borsellino in Era d’estate di Fiorella Infascelli – fa la parte di Costanza, una «cognata» molto religiosa, una neocatecumenale che ha quattro glie e non ha
nito. Storia che s’intreccia col suo vissuto personale, almeno in (piccola) parte. Visto che ha un pancione. Nel lm sostiene che «una femmina senza
gli è una femmina a metà». Lo crede davvero? «Per fortuna, no. C’è chi non ha nessuna intenzione, chi senza invece ha scompensi e impazzisce. Essere genitori è un trasporto, una responsabilità e una passione. Può essere un passaggio interessante, ma sicuramente non è un passaggio necessario. Né però è un inferno come ultimamente spesso sento dire. Penso semplicemente che i bambini portino fortuna, un po’ di tumulto e rumore, e ampli chino quello che già c’è: se un neonato crea disagio, è perché embrionalmente quel disagio già c’era». Gabriele, il suo primogenito (avuto sempre con il compagno, Domenico Chiarello, avvocato), è arrivato «senza che lo cercassimo, sette anni fa, con quel modo arrogantello che ha». E Nina? «I gli sono una magia. Ci abbiamo provato, l’estate di un anno fa, niente. Mi ero detta: vabbè, il corpo è cambiato, mettiamoci una pietra sopra. E invece ora Nina ha scelto noi. Come io 36 anni fa ho scelto la mia famiglia. Tutti lo facciamo. I gli arrivano dove vogliono, nelle braccia di chi vogliono». Oggi sa perché scelse proprio suo padre e sua madre? «Per l’altruismo che muove entrambi. Lui, chirurgo generale, un uomo votato agli altri. Lei, ex insegnante di inglese alle medie, lo stesso». Nel lm vengono attraversati diversi tipi di genitorialità, una anche omosessuale. Il suo personaggio a un certo punto dice: «Un glio tuo però è tutta un’altra cosa». «Ma nella vita non c’è una regola. Comanda il desiderio. Io sogno un domani di adottare, ampliarci in altre forme. E non ci vedo nulla di male. Ma adesso devo concentrarmi, essere brava e pensare al primo più che alla seconda. Ce l’ha chiesta lui, ma ora capisco che è felice, e insieme turbato. Come se dentro avesse un disagio». Come lo gestisce? «Responsabilizzandolo sulla nascita. Che da fratello più grande è suo il ruolo più importante, e deve dare alla sorella le energie più buone che ha, mattino dopo mattino». Lei è felice sia femmina? «Non ne posso più di avere fucili in casa». E spaventi, perché è femmina? «Ho paura in prospettiva, per quando sarà adolescente. Leggendo quante ne succedono. Sapendo che l’educazione che le darai potrà determinare il suo percorso, ma no a un certo punto». Nel 2016 ci aveva con dato di avere subito una violenza. E ancora scrive sui social: «Non è amore se ti fa male. Una volta dura per sempre». «Bisogna scrollarsi di dosso l’idea che l’abuso c’entri con l’amore. C’entra col disagio di quella persona. E quel disagio non ha a che fare con te». Quanto ci si mette a far ordine così in un dolore? «Una vita. Quando succede che sei piccola è molto dicile avere un pensiero strutturato. Oggi essere madre di un maschio è una responsabilità doppia. Chi picchia è anche il bambino di un tempo. E mia glia sarà una creatura nuova, avrà un’altra strada». Cosa manca, al nostro cinema, che «colmerebbe» volentieri? «Raccontare le donne in questa età (non sono i 20, non sono i 50), quel che avviene prima dei 40, senza tirare in ballo enormi voragini di fragilità, senza che sembri sempre ci manchi un pezzo, senza renderci “dure” o Giovanne d’Arco, solo perché risolte». Qual è la cosa più importante da sapere, quando ti nasce un
glio? «Che è una storia a te legata, ma da te staccata. E non potrai imporgli le tue volontà, i tuoi modi, il tuo gusto. Avrà una sua autonomia. Dovrai resistere alla tentazione di metterlo in una teca di vetro». La promessa più vera da fargli, da madre? «Il sorriso dentro, nonostante il resto. Me l’ha passato Agnese Borsellino, faceva luce dalle pagine del suo libro (Ti racconterò tutte le storie che potrò, Feltrinelli, 2013, ndr). E l’ascolto, poi. L’ascolto». Che è anche forse quel che di meglio possiamo insegnare, anche a noi stessi. «Non bisogna perdersi di vista. Altrimenti, prima o poi, la paghi».