Vanity Fair (Italy)

CHI SI FERMA NON È PERDUTO

Nel suo nuovo ilm CLAUDIA POTENZA è una madre incline all’impulsivit­à. Nella vita reale invece sa riflettere: «L’istinto inganna e non credo che si debba per forza premere sull’accelerato­re»

- di LAVINIA FARNESE foto GIANMARCO CHIEREGATO

D'essere cresciuti lo si può capire a tratti. O d’improvviso, in una volta sola. Un giorno come gli altri. Al semaforo. «Ero in prima linea, è scattato il verde e io invece di partire sono rimasta ferma. La gente in la, dietro, si dannava attaccando­si ai clacson, levando bestemmie al cielo. Ma a pochi metri, proprio al centro dell’incrocio, c’era un ingorgo. E a spingere sull’accelerato­re avrei solo peggiorato la situazione. È stato lì che ho avuto chiaro che non per forza bisogna buttarsi, farsi avanti, se non ha un senso, se con quell’atto non risolvi niente. Se è salva la coerenza, puoi sempre fregartene del giudizio degli altri. Di quel che pensano, urlano e vorrebbero». Claudia Potenza dice di essere nata «irrequieta e ribaltante», ma oggi ha una pacatezza nel parlare che sembra solo sconsacrar­e il suo cognome. A Roma, nella casa bianca in pieno Trastevere che ha ristruttur­ato con le sue mani, ci porta dentro a Nove lune e mezza, l’opera prima sull’essere o non essere madri della sua amica Michela Andreozzi, in cui lei – che ha lavorato con Ferzan Özpetek (Magni ca presenza) ed è stata Agnese Borsellino in Era d’estate di Fiorella Infascelli – fa la parte di Costanza, una «cognata» molto religiosa, una neocatecum­enale che ha quattro glie e non ha

nito. Storia che s’intreccia col suo vissuto personale, almeno in (piccola) parte. Visto che ha un pancione. Nel lm sostiene che «una femmina senza

gli è una femmina a metà». Lo crede davvero? «Per fortuna, no. C’è chi non ha nessuna intenzione, chi senza invece ha scompensi e impazzisce. Essere genitori è un trasporto, una responsabi­lità e una passione. Può essere un passaggio interessan­te, ma sicurament­e non è un passaggio necessario. Né però è un inferno come ultimament­e spesso sento dire. Penso sempliceme­nte che i bambini portino fortuna, un po’ di tumulto e rumore, e ampli chino quello che già c’è: se un neonato crea disagio, è perché embrionalm­ente quel disagio già c’era». Gabriele, il suo primogenit­o (avuto sempre con il compagno, Domenico Chiarello, avvocato), è arrivato «senza che lo cercassimo, sette anni fa, con quel modo arrogantel­lo che ha». E Nina? «I gli sono una magia. Ci abbiamo provato, l’estate di un anno fa, niente. Mi ero detta: vabbè, il corpo è cambiato, mettiamoci una pietra sopra. E invece ora Nina ha scelto noi. Come io 36 anni fa ho scelto la mia famiglia. Tutti lo facciamo. I gli arrivano dove vogliono, nelle braccia di chi vogliono». Oggi sa perché scelse proprio suo padre e sua madre? «Per l’altruismo che muove entrambi. Lui, chirurgo generale, un uomo votato agli altri. Lei, ex insegnante di inglese alle medie, lo stesso». Nel lm vengono attraversa­ti diversi tipi di genitorial­ità, una anche omosessual­e. Il suo personaggi­o a un certo punto dice: «Un glio tuo però è tutta un’altra cosa». «Ma nella vita non c’è una regola. Comanda il desiderio. Io sogno un domani di adottare, ampliarci in altre forme. E non ci vedo nulla di male. Ma adesso devo concentrar­mi, essere brava e pensare al primo più che alla seconda. Ce l’ha chiesta lui, ma ora capisco che è felice, e insieme turbato. Come se dentro avesse un disagio». Come lo gestisce? «Responsabi­lizzandolo sulla nascita. Che da fratello più grande è suo il ruolo più importante, e deve dare alla sorella le energie più buone che ha, mattino dopo mattino». Lei è felice sia femmina? «Non ne posso più di avere fucili in casa». E spaventi, perché è femmina? «Ho paura in prospettiv­a, per quando sarà adolescent­e. Leggendo quante ne succedono. Sapendo che l’educazione che le darai potrà determinar­e il suo percorso, ma no a un certo punto». Nel 2016 ci aveva con dato di avere subito una violenza. E ancora scrive sui social: «Non è amore se ti fa male. Una volta dura per sempre». «Bisogna scrollarsi di dosso l’idea che l’abuso c’entri con l’amore. C’entra col disagio di quella persona. E quel disagio non ha a che fare con te». Quanto ci si mette a far ordine così in un dolore? «Una vita. Quando succede che sei piccola è molto dižcile avere un pensiero strutturat­o. Oggi essere madre di un maschio è una responsabi­lità doppia. Chi picchia è anche il bambino di un tempo. E mia glia sarà una creatura nuova, avrà un’altra strada». Cosa manca, al nostro cinema, che «colmerebbe» volentieri? «Raccontare le donne in questa età (non sono i 20, non sono i 50), quel che avviene prima dei 40, senza tirare in ballo enormi voragini di fragilità, senza che sembri sempre ci manchi un pezzo, senza renderci “dure” o Giovanne d’Arco, solo perché risolte». Qual è la cosa più importante da sapere, quando ti nasce un

glio? «Che è una storia a te legata, ma da te staccata. E non potrai imporgli le tue volontà, i tuoi modi, il tuo gusto. Avrà una sua autonomia. Dovrai resistere alla tentazione di metterlo in una teca di vetro». La promessa più vera da fargli, da madre? «Il sorriso dentro, nonostante il resto. Me l’ha passato Agnese Borsellino, faceva luce dalle pagine del suo libro (Ti racconterò tutte le storie che potrò, Feltrinell­i, 2013, ndr). E l’ascolto, poi. L’ascolto». Che è anche forse quel che di meglio possiamo insegnare, anche a noi stessi. «Non bisogna perdersi di vista. Altrimenti, prima o poi, la paghi».

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