IL LATITANTE
esare Battisti sembra uscito da un cattivo noir scritto da un cattivo scrittore: di quelli che fanno uso a piene mani dei luoghi comuni. Incarna con desolante fedeltà, perfino nei tratti del volto, il cliché del terrorista di sinistra arrogante, sprezzante e incapace di elaborare il lutto (degli altri). Ancora convinto a distanza di anni (quaranta: una vita) di avere avuto le sue buone ragioni, o comunque le sue attenuanti ideologiche, e di essere braccato dalla giustizia «dei vincitori» solo in virtù di una sconfitta politica e non a causa dei delitti commessi: rapina e omicidio. La protezione e la solidarietà – oltre ogni ragionevole dubbio – di molti intellettuali francesi ha fatto il resto, consegnando Battisti al ruolo, non pertinente e dunque molto sgradevole, del perseguitato politico. A differenza di migliaia di fuggiaschi e di criminali comuni, un latitante «speciale», privilegiato dal rango di letterato e dalle frequentazioni di quel milieu. roprio la clamorosa «antipatia» di Battisti, e la sua pretesa di passarsela da richiedente asilo in fuga da una sentenza politica, dovrebbero suggerire, però, di trattare il suo caso con la misura e il distacco che servono a disinnescare l’emotività che ancora oggi, quasi due generazioni dopo, permea il discorso sulla violenza di quegli anni. Di quella emotività Battisti si serve, ovviamente pro domo sua, per riaccendere gli animi e rinfocolare l’astio, cercando scampo alle condanne che gli ha inflitto la giustizia di una democrazia europea, non di una dittatura o di un «regime» illegittimo come a lui e ai suoi incauti protettori piace far credere. Per questo, proprio per questo, il complessivo clima di caccia all’uomo che si respira nell’Italia mediatica, con inviati di telegiornali che lo pedinano, lo braccano, ne mettono in rilievo «lo sguardo spavaldo», gli ficcano un microfono in bocca e una telecamera in faccia (vedi i servizi del Tg1, primo telegiornale della televisione pubblica), è controproducente, sbagliato, ingiusto. È bene che Cesare Battisti venga estradato e finalmente paghi il suo debito alla nostra comunità nazionale: però qualcuno spieghi agli inviati dei telegiornali che non sono loro che devono arrestarlo. Che trattare da covo la sua casa brasiliana e da complici i suoi familiari non fa parte del diritto di informazione: è pura gogna, non prevista dai codici e, volendo, nemmeno dalla cosiddetta deontologia professionale di chi impugna una telecamera o scrive un articolo. gni persona – anche se colpevole, specie se colpevole – merita un arresto rispettoso e una detenzione rispettosa, perché così è capitato che si decidesse di fare, nel corso dei secoli, per separare nettamente lo spirito di giustizia dal sentimento di vendetta. Non avere un volto amabile né un modo di fare accattivante non è un merito, ma neppure un’aggravante. E collegare lo «sguardo spavaldo» di vecchie fototessere, o un bicchiere di birra levato ieri l’altro di fronte ai fotografi, ai delitti di quarant’anni fa, è molto pretestuoso e molto facile, un effettaccio che non aggiunge una virgola alla chiarezza su quei delitti, e leva equilibrio e asciuttezza al nostro sguardo, che è lo sguardo pubblico. Trovare misura di fronte al crimine e al dolore: ci arriveremo mai? Il sospetto è che alla vecchia soma dell’emotività politica, del passato che non passa, se ne aggiunga un’altra, molto più contemporanea: l’imbonimento assordante sui casi criminali di ogni ordine e grado. Che fa di ogni criminale e di ogni vittima carne da spettacolo, e dunque Battisti come zio Michele, come Olindo e Rosa, come chiunque meriti un primo piano abbastanza livido, abbastanza terribile (o atterrito) da meritare la prima serata e le prime pagine. Va aggiunto, a questo proposito, che non solamente l’ex terrorista rosso «cocco della gauche caviar», come scrivevano e scrivono i giornali di destra inchiodati al proprio eterno repertorio, ma anche il killer di paese, la madre infanticida, la coppia «maledetta» meritano che, della propria caduta, venga fatto un uso meno sguaiato, meno indecente.