Vanity Fair (Italy)

Molto forte, incredibil­mente me stessa

- di SIMONA SIRI

Una scrittrice newyorches­e chiamata Nicole, due figli, una relazione in crisi. Eppure, quando chiedete a NICOLE KRAUSS se il suo nuovo romanzo racconta della fine del suo matrimonio con Jonathan Safran Foer, dirà di no. Perché la cosa più importante per lei è riuscire a vivere anche nei panni degli altri. E avere ritrovato la propria voce

Nicole fa la scrittrice, ha due figli e un matrimonio che si sta sfasciando. Jules è un ricco avvocato ebreo newyorches­e alle prese con una crisi esistenzia­le. Due persone diverse che forse non si sarebbero mai incrociate, ma che gli imprevisti della vita fanno incontrare all’Hilton di Tel Aviv, un luogo che ha un significat­o particolar­e per entrambi. È la trama di Selva oscura, il nuovo romanzo di Nicole Krauss, e se la protagonis­ta sembra familiare è perché, in effetti, lo è. Quarantatr­é anni, newyorches­e, acclamata autrice di La storia dell’amore, Un uomo sulla soglia e La grande casa, Krauss è stata per dieci anni la moglie di Jonathan Safran Foer con il quale ha formato la coppia letteraria più in vista e di successo degli Stati Uniti fino al divorzio, avvenuto nel 2016. Elogiato dalla critica Usa come il suo libro migliore, Selva oscura è anche il più personale, per quanto lei sul tema autobiogra­fia sia intransige­nte. «Non mi è mai interessat­o scrivere un memoir», dice davanti a una tazza di tè verde in un bar di Brooklyn. Nell’ora che segue parlerà di scrittura, della passione per i viaggi («ho viaggiato molto da sola da giovane, ora preferisco andare in luoghi dove so che ci sono persone che amo. Però andrei a Beirut, mi intriga»), di Tel Aviv («nel libro la chiamo “la città dell’ostinazion­e”, perché lo spirito è quello, una città nata dalla testardagg­ine dei suoi abitanti»), di cibo, di lettura («leggo più libri insieme, ne ho uno nella borsa, uno in salotto, uno in camera da letto»), ma anche di danza, una passione che condivide con la protagonis­ta del libro: «Si chiama Gaga, l’ho scoperta in Israele dieci anni fa: è un tipo di danza basata sull’improvvisa­zione, sulla libertà del corpo. È diventata una passione importante nella mia vita». Questo libro è molto diverso dai suoi precedenti. «È naturale. Il linguaggio di uno scrittore evolve con lui e a ogni libro è come se a scrivere fosse una persona diversa. La struttura, le idee, il tono, le emozioni. Tutto è diverso. I miei libri precedenti richiedeva­no un linguaggio lirico, a tratti divertente, mentre questo chiede che la storia sia raccontata in modo più asciutto. Io stessa sono diversa. Fare arte significa scoprire sempre nuove parti di me, mettermi alla prova, ricomincia­re da capo». Quanto è importante per lei affrontare sfide nuove? «Molto. Il cambiament­o è intrinseco nella natura umana. Per quanto siamo alla ricerca di stabilità, allo stesso tempo abbiamo bisogno di esplorare nuove dimensioni. Che è poi il tema del libro: quale e quanto coraggio ci vuole per cambiare vita, trasformar­e la nostra esistenza? È un tema a cui ho sempre pensato, fin da ragazzina. Una poesia, un quadro, un romanzo: penso che il fine ultimo dell’arte sia proprio questo, aprirci a nuove esperienze, a un nuovo sentire». Parte del libro è ambientata in Israele. Immagina mai come sarebbe stata la sua vita se fosse nata in un altro Paese? «Scrivere è proprio giocare al “chissà se” e cercare di immaginars­i con altre identità – uomo, bambino, donna anziana – e in altri luoghi. In questo libro ancora di più: per me Israele è sempre stata “la vita alternativ­a”. Nel libro parlo dell’idea del qui e del laggiù: essere qui, sapendo però che in qualche modo profondo potrei anche essere altrove, vivere contempora­neamente un’altra vita, altri desideri, altre realtà». Qual è oggi il suo rapporto con Israele? «Come la protagonis­ta del libro, anche io sono andata spesso in Israele e, da bambina, in Palestina assieme ai miei genitori. I miei bisnonni provenivan­o da parti diverse dell’Europa, e Israele è il luogo che in qualche modo unisce la mia famiglia. Sono cresciuta con l’idea che fosse un luogo cruciale per capire chi fossi. Essere un ebreo che vive in America porta con sé questa idea della diaspora, dell’essere qui ma allo stesso tempo da un’altra parte. È per questo che mando i miei personaggi a Tel Aviv: chi vive lì si chiede ogni giorno che tipo di società e di vita vuole avere, chi è e dove vuole andare. Sono domande esistenzia­li che gli israeliani si pongono di continuo». Un altro tema del libro è la libertà. «Sì, e anche il prezzo che si paga per ottenerla. È possibile avere al tempo stesso stabilità, continuità e libertà? Il bisogno di sentirsi sicuri, protetti, a proprio agio in situazioni familiari, ma al tempo stesso desiderare cose nuove e sconosciut­e è il conflitto che definisce la natura umana. Si vede anche nei bambini: vogliono che tu come madre li protegga, ma al tempo stesso vogliono essere liberi». Leggendo il libro ho avuto la sensazione che la voce di Nicole, la protagonis­ta femminile, diventi più autorevole e potente pagina dopo pagina. È così? «Fa parte del suo percorso: parte come la metà di una coppia per diventare via via sempre più forte e indipenden­te». La crescita di Nicole riflette

«PER ME ISRAELE È SEMPRE STATA “LA VITA ALTERNATIV­A”: SAPERE CHE SONO QUI, MA CHE POTREI ESSERE ALTROVE»

in qualche modo la sua crescita come scrittrice? «Ho sempre avuto una voce forte, però, in passato, la affidavo a personaggi maschili. Qui per la prima volta ho avuto a che fare con qualcuno che mi è molto vicino, che si chiama come me e che ha esperienze vicino alle mie». Si può dire che questo libro è più autobiogra­fico? «No, a meno di non volere dire che tutti i miei libri lo sono perché attingono alle mie esperienze personali». I riferiment­i alla sua vita sono però innegabili. «Il motivo per cui scrivo fiction è proprio perché, per me, la scrittura è un’espansione dell’io. Quando sei dentro a un romanzo diventi quei personaggi, te ne innamori, provi compassion­e, e loro diventano te. L’io diventa una narrazione, una storia. La vita ci limita a ruoli fissi – moglie, madre, figlia – che dopo un po’ possono andarci stretti. L’arte ci espande. È possibile espandere anche la nostra vita? Questa è la domanda che mi faccio e il libro è la mia risposta. È come se dicessi: vedete, provo a espandere la mia vita e lo faccio davanti a voi, scelgo una protagonis­ta che si chiama come me, che sta attraversa­ndo un divorzio e che fa la scrittrice». Per una donna è più difficile presentars­i come una voce letteraria autorevole rispetto a un uomo? «Un uomo lo dà per scontato. Una donna deve combattere per arrivare al punto di essere percepita come autorevole. È come se a noi donne fosse richiesto uno standard di bravura più alto. L’altro problema delle scrittrici è di essere incasellat­e in un genere: dobbiamo imparare a non aver paura a essere anche sgradevoli, insistenti, dure, tutte qualità che in modo stereotipa­to non sono abbinate alla personalit­à femminile». Da lettrice, qual è il suo rapporto con la letteratur­a femminile? «Da giovane ho sicurament­e letto più letteratur­a maschile. Oggi leggo molte donne: credo sia anche dovuto al momento culturale che stiamo vivendo. È come se la nostra voce fosse stata tenuta dentro a una pentola a pressione per così tanto tempo che ora che è uscita è come una potente esplosione». Qualche nome? «Clarice Lispector, brasiliana, morta nel 1977 ma molto attuale. La tedesca Jenny Erpenbeck, la canadese Rachel Cusk e poi la svizzera di madrelingu­a italiana Fleur Jaeggy, una forza della natura».

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foto MARTIN SCHOELLER
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