IL SENSO DI UMA PER LE SUE SORELLE
Il dibattito sulle molestie si riaccende con la testimonianza di UMA THURMAN. L’attrice, musa di Tarantino, dopo essersi cullata per anni con l’ambiguo profumo del successo trascina l’ex compagno Quentin (e il suo sodale Weinstein) all’inferno: «Harvey mi
Ealla fine Uma ha parlato. Per mesi aveva detto di essere troppo arrabbiata anche solo per prendere la parola. Si è vendicata lentamente, ma inesorabilmente. Il suo racconto ha smontato uno degli ultimi pezzi che restavano ancora in piedi del castello di Harvey Weinstein, la favola del produttore capace di riconoscere il talento di geni come Quentin Tarantino e cambiare la storia del cinema. Uma Thurman, la musa del regista, vertice biondo del triangolo che ha creato Pulp Fiction e Kill Bill, i principali valori della filmografia di Weinstein, ha imbracciato una virtuale katana e squarciato il velo. Sì, Weinstein le è saltato addosso, più di una volta, come ha fatto con molte altre. Non solo. Sul set di Kill Bill, Tarantino l’ha spaventata a morte e costretta a girare una pericolosissima scena in auto: esiste un video, di cui Uma è riuscita a entrare in possesso dopo 15 anni di liti con il regista. L’attrice è anche finita all’ospedale con conseguenze al collo e alla schiena che durano ancora oggi. Il sadismo di Quentin è evidente nel cinema che scrive ma c’è una bella differenza, si sa, tra immaginario e agito. E, soprattutto, viene da chiedersi: Tarantino si sarebbe comportato allo stesso modo, rifiutando la controfigura richiesta dall’interprete, se solo al posto di Uma, in quella macchina ci fosse stato un uomo: che ne so, Leonardo DiCaprio?
Vi siete risposti da soli. Si è risposta Uma. Manipolata da persone che pensava fossero dalla sua parte, cullata dall’ambiguo profumo del successo, oggi tocca il punto chiave, il più profondo di tutto il dibattito sulle molestie: «Mi ci sono voluti 47 anni per capire che chi è cattivo con te non ti vuole bene. C’è voluto così tanto tempo perché noi donne, fin da bambine, siamo condizionate a credere che ci sia un certo legame tra amore e crudeltà. Ma è arrivata l’epoca in cui bisogna uscirne». Alzi la mano chi il 5 ottobre scorso, data di uscita del primo articolo contenente accuse contro il produttore americano Harvey Weinstein, ha pensato che tutto sarebbe finito in fretta, come qualunque notizia, in questo nostro tempo così veloce, così vorace. Probabilmente, la maggioranza. Pochi, quattro mesi fa, avrebbero scommesso che a febbraio saremmo stati ancora qui a parlarne. Men che meno avrebbero pensato che ci sarebbe stato un nuovo punto all’ordine del giorno, un nuovo hashtag a cui attaccare il carro dell’indignazione: #dissensocomune, frutto della lettera di 124 donne dello spettacolo italiane. Non fanno i nomi dei molestatori, ma affermano di denunciare un «sistema» in cui gli abusi di potere sono la regola non scritta. Che il bisogno di un cambiamento radicale prendesse queste dimensioni è qualcosa che era difficile prevedere. Del resto, sembravano solo cose di Hollywood, cose lontane, con denunce tardive, fiammate improvvise di popolarità di ritorno. Sono passati quattro mesi e abbiamo avuto innumerevoli puntate, digressioni, sequel e spin off, con la confusione che ne consegue. C’è stata la lettera delle scandinave: oltre 700 donne del mondo dello spettacolo, decine di racconti di molestie, stupri, ricatti. Ci sono stati gli eccessi cretini (ottomila firme che chiedono di togliere un quadro di Balthus dal Metropolitan Museum di New York) e c’è stata, in reazione al montante puritanesimo americano, la deriva francese che chiameremo «affaire Deneuve», in cui cento donne chiedono che, per carità, si combattano pure le molestie ma che non venga tolto agli uomini il diritto di importunare, qualunque cosa questo significhi. E c’è stata, ancora in corso, la versione «commedia dell’arte» che si è vista dalle nostre parti. Riassumendo, in caso foste stati su Marte, ecco come è andata. Asia Argento, una delle molte attrici perseguitate dalle smanie sessuali di Harvey Weinstein, diventa suo malgrado (o forse no) l’epicentro di ogni discussione in Italia. Accusa, tra l’altro, Fabrizio Lombardo, al tempo dei fatti responsabile di Miramax in Italia, la casa di produzione di Weinstein. Lombardo l’avrebbe portata con l’inganno a una festa all’Hotel du Cap durante il festival di Cannes. Asia aveva 21 anni, la festa non c’era e, ad aspettarla, c’era Weinstein in accappatoio, a chiederle un massaggio e poi altro ancora. In un’intervista a vanityfair.it, Lombardo nega e smentisce di essere colui che procurava le donne a Weinstein. Il New York Times raccoglie altre testimonianze sulle attività di Lombardo precedenti ai suoi impegni con Weinstein. A Parigi, negli anni Ottanta, insieme all’agente di modelle JeanLuc Brunel, si occupava di portare le ragazze più belle della città alle feste di uomini molto ricchi. Lombardo ha raccontato di essere stato presentato a Weinstein da Giuseppe Tornatore. Un altro nome che sale alla ribalta quando Miriana Trevisan (ex ragazza di Non è la Rai, attrice e conduttrice televisiva) racconta, sempre su vanityfair.it che il regista, alla fine di un incontro di lavoro nel suo studio, tentò di insidiarla. Tornatore ha negato, Trevisan ha ribadito la sua versione. Alcune attrici che hanno lavorato con il regista (Monica Bellucci in testa a un gruppo di cui fa parte anche Claudia Gerini, ex fidanzata di Fabrizio Lombardo) lo difendono. Miriana, come Asia, raccoglie spiccioli di solidarietà ma, in buona sostanza, le loro voci spaccano l’opinione pubblica. Mentre negli Stati Uniti il movimento #MeToo raggiunge platee sempre più ampie (l’apice alla cerimonia dei Golden Globe) e colpisce obiettivi sempre più grossi, al punto da rischiare ogni giorno di scavalcare i confini del buonsenso per diventare una specie di neo inquisizione, in Italia il silenzio è glaciale. La sensazione è di vivere in un Paese di donne mute e uomini che sanno tenere le mani a posto, sempre. Strano, no? Ma succede qualcosa di ancora più strano, nel frattempo. Una trasmissione umoristicogoliardicopopulista come Le Iene raccoglie le testimonianze di una ventina di ragazze, nessuna famosa, tranne Tea Falco. Si intuisce che esistono diversi molestatori anche nel cinema italiano, uno di questi sarebbe seriale, proprio una specie di Weinstein, a un certo punto ne viene fatto il nome: è Fausto Brizzi. Anche in questo caso, altre attrici famose (tra cui Nancy Brilli e Cristiana Capotondi, quest’ultima tra le firmatarie di #dissensocomune) lo difendono. Le accusatrici vengono screditate, «del resto si sono rivolte alle Iene e non alla polizia», «del resto sono sconosciute morte di fama». Nel frastuono, isoliamo un dettaglio. In quei giorni, viene alla luce anche la storia di Vanya Stone, professione tatuatrice: contattata da Brizzi su Facebook, avrebbe subito un tentativo di assalto dal regista ed è andata alla polizia a denunciarlo. Le venne risposto che, poiché non c’erano prove sufficienti, non si poteva agire. Di Vanya non si è più saputo nulla. Di Brizzi, si sa che Luca Barbareschi gli ha proposto un contratto per la regia di tre film presso la sua casa di produzione.