Vanity Fair (Italy)

IL DIO del BASEBALL

È affezionat­o alla nebbia, ma deve lasciarla: la «squadra di Brad Pitt», gli Oakland Athletics, lo ha chiamato a giocare negli Stati Uniti. CESARE ASTORRI si prepara a vivere il sogno della vita, sperando che lassù qualcuno lo ami

- di SILVIA BOMBINO foto MARCO FERRARIO

Il dio del baseball un giorno ti ama, e vinci. Il giorno dopo ti odia, e perdi. «Se conosci questa regola, va tutto bene». Cesare Astorri ha una saggezza naturale, tiene lo sguardo basso e pensa, prima di parlare. Poi, all’improvviso, scoppia a ridere, gli occhi azzurri si spalancano, le mani smettono di torturarsi. È seduto sul divano di casa, a Colorno, venti chilometri a nord di Parma e 8 mila anime, tutto è bianco, fuori. «Qui, non c’è niente», avverte. Ma non è duro. «Alla fine, alla nebbia ti affezioni». A metà febbraio prenderà un aereo per un altro clima, destinazio­ne Mesa, Arizona, dove lo aspetta la divisa degli Oakland Athletics, con cui ha firmato il mese scorso. «Abbiamo fatto tanti sacrifici per questo risultato», dice il padre Lodovico, ex catcher della nazionale le cui imprese si raccontano appese ai muri, in bianco e nero. Se fosse un fanatico – ma non lo è – Cesare Astorri andrebbe in giro con la maglia del suo mito Derek Jeter, l’ex capitano dei New York Yankees, ma nessuno saprebbe di chi si tratta. Ecco perché la sua impresa è epica: il baseball, in Italia, è uno sport eroico. La Fibs (Federazion­e Italiana Baseball Softball) tessera 50 mila atleti, il calcio oltre un milione e 350 mila. A parte Nettuno, dove portarono il gioco i soldati americani sbarcati durante la Seconda guerra mondiale, la passione è sparsa a macchie. I dintorni di Parma, Bologna e Rimini per esempio. E non sono bastati né Brad Pitt, né le sei nomination all’Oscar a far sì che Moneyball L’arte di vincere, che raccontava proprio gli Oakland Athletics, rendesse popolare il film e questo sport. Un motivo c’è. «È troppo complicato», dice Astorri. E non solo: nel 2017 è stato calcolato che la durata media di una partita è di 3 ore e 5 minuti. Spieghi una partita di baseball in tre parole. «Una squadra attacca e l’altra difende. La prima deve fare il maggior numero di punti: il battitore deve colpire la palla il più lontano possibile e fare il giro delle quattro basi. La seconda deve fare tre “out”, ossia eliminare tre giocatori per invertire le parti, e andare in attacco. La partita va avanti così per nove inning, nove scambi difesa-attacco. Non esiste pareggio, quindi si va a oltranza». Che cosa le piace del baseball? «Proprio il fatto che è molto complicato. E non smetti mai di imparare: ci sono centinaia e centinaia di regole che ancora adesso non ho capito del tutto».

Mi sta dicendo che si può giocare a baseball ignorando alcune regole? «Certo. Ma se le sai è meglio». Lei, come suo padre, è un catcher, e sta dietro il battitore. Che ruolo è? «Al 90 per cento mentale e al 10 per cento fisico. Una specie di regista: chiamo gli schemi, i giochi, gli effetti che il lanciatore deve dare alla palla per far sì che il battitore non la colpisca o la colpisca male». Come è arrivato agli Oakland Athletics? «Ho iniziato a quattro anni. Volevo sempre giocare, chiedevo a mio padre di fare allenament­i extra. Poi sono cresciuto, sono entrato in nazionale, ho fatto due europei e un mondiale. Ma ho sempre avuto un obiettivo: andare in America. Quindi appena ho potuto ho partecipat­o ai tryout, agli showcase a Santo Domingo e negli Stati Uniti». E se non l’avessero presa? «Sarei andato là per il college. Durante i provini non vengono solo gli scout delle grandi squadre, ma anche i procurator­i delle università. Mi avevano già contattato in due o tre per offrirmi delle borse di studio». Lei che scuola ha fatto? «L’istituto tecnico agrario e l’Accademia della Federazion­e a Tirrenia, dove si facevano allenament­i tutti i giorni. Lo scorso settembre ho iniziato la quinta ma ora ho interrotto per andare in America». Quindi non si è diplomato? «No. Ma se andasse male in Arizona torno in Italia e lo faccio. È nei patti con mio padre. Poi ritorno là, a fare qualsiasi lavoro». Parla inglese? «Mi so far capire e capisco. Con la nazionale ho girato un po’, Giappone, Polonia... L’ho imparato giocando, non a scuola». Usa Today dice che Mike Trout dei Los Angeles Angels nel 2018 sarà il giocatore più pagato della Major League, con oltre 34 milioni di dollari l’anno. In Italia quanto guadagna un profession­ista? «Un giocatore del Parma, che in Italia gioca nel massimo campionato, per fare un esempio, prende un rimborso spese mensile di 200 euro per la benzina». Lei che cosa spera? «Provo a stare lì il più possibile, salire di livello. Parto dalla rookie league che è il livello più basso dei profession­isti». Quante possibilit­à si dà? «Non saprei. Ai ragazzi europei come me, che firmano per poco, dieci, venti, trentamila euro, si fa un contratto pluriennal­e ma è facile che dopo un paio d’anni ti mandino a casa se non c’è un progresso. La concorrenz­a è forte e i favoriti sono i dominicani e i sudamerica­ni che hanno tradizioni di baseball più importanti». Ha paura? «Per niente. Ma sarò sotto pressione e dovrò lottare per emergere, facendo attenzione soprattutt­o ai miei compagni di squadra, che sono tutti più grandi, sui 23 anni, e faranno di tutto per sbattermi fuori, saranno i miei peggiori nemici. L’obiettivo a quei livelli non è di vincere ma di salire di livello. Tutti giocano per se stessi». Bisogna essere forti. «Adesso non lo sono abbastanza. Ma là lo diventerò». Ha imparato il motto degli A’s? «Perdi il diritto di essere mediocre: sì, là è scritto ovunque». Un po’ stressante, non trova? «Sono cose che si dicono, nell’ambiente. Come che ci sia il dio del baseball che ti guarda. Oggi sei bravo e in partita ti riesce tutto, domani fai pena. È uno sport che ti butta giù. La prima lezione che mi ha insegnato mio padre è: non mollare mai». A che cosa ha rinunciato per il baseball? «A una ragazza. La sola che ho avuto».

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