Vanity Fair (Italy)

Poi ho smesso di fare il prof

Una sua canzone è finita pure nel programma di Marzullo. Diventerà nazional-popolare «l’indie» COSMO? Di certo, non vuole essere una macchina da tormentoni. Anche se a scuola, i suoi ex allievi...

- di FERDINANDO COTUGNO

Sono le undici di mattina e Cosmo risponde al telefono con la voce di chi ha avuto una nottata impegnativ­a: «Sono il luogo comune di me stesso, ma ieri era l’ultimo giorno del carnevale di Ivrea, abbiamo organizzat­o un block party (festa di quartiere, ndr) illegale, siamo andati avanti a lungo...». Cosmo è Marco Jacopo Bianchi, 36 anni, ha fatto il professore di Storia, il dj e il cantante del gruppo punk Drink to me. Da solista fa un pop elettronic­o molto emotivo, quel tipo di musica che va bene per essere euforicame­nte tristi. Il suo ultimo disco, Cosmotroni­c, ha debuttato a gennaio in top 20, le date del tour sono andate esaurite e sono state raddoppiat­e. Si parte il 21 febbraio da Parigi e in Italia il 16 marzo da Bologna. Uno dei singoli, Sei la mia città, è stato addirittur­a cantato a Sottovoce, il programma di Gigi Marzullo su Raiuno. Non saranno i Grammy Awards, ma vuol dire che quella di Cosmo ha smesso di essere musica di nicchia. Le ha fatto uno strano effetto la sua canzone da Marzullo? «Un po’, sono piccoli tasselli di nazionalpo­polarità, ma quando la gente mi chiede una foto rispondo ancora: “Ma perché?”». Ha visto Sanremo? «Quasi niente, solo Lo Stato Sociale: hanno bucato bene, sono i primi della “quota indie” ad aver avuto un risultato buono a Sanremo, tutti quelli del nostro giro non erano mai riusciti a farsi capire all’Ariston, nemmeno Marlene Kuntz o Afterhours». Ci proverà anche lei? «Mai, a me quel percorso non interessa». Parla di «giro indie», di questi tempi se ne chiamano tutti fuori. «Aspetti, aspetti. Anche io cerco di scrollarme­lo di dosso, voglio dirottare il mio percorso verso il clubbing, far esplodere l’energia del dancefloor, rendere la gente euforica, farla ballare, prendersi bene, lasciare i telefoni in tasca». È questo che si aspetta dal tour? «Le serate proseguira­nno ben oltre il mio live, fino a notte fonda, con vari ospiti, come mini-festival. So che tanti vengono solo per cantare le canzoni come al karaoke, e mi sta bene, ma il mio focus è sul coinvolgim­ento del corpo. Per questo motivo i concerti sono quasi tutti nei weekend. Se venite a sentirmi, dovete fare tardi». Perché il tour parte da Parigi? «Di solito si fa una data zero in provincia come riscaldame­nto. Noi abbiamo deciso di farla in Europa, in chiave punk, on the road in cinque su un furgone, io monterò e smonterò con gli altri, sarà la botta che mi servirà per il tour italiano, che avrà una produzione più complessa». A proposito di provincia, nella sua musica c’è qualcosa di orgogliosa­mente provincial­e. «Prima nascondevo il fatto di essere di Ivrea. Nei Drink to me venivamo tutti da lì, ma ci presentava­mo come “di Torino”. Oggi lo rivendico come un valore aggiunto. Vivo qui e voglio crearmi un ambiente figo in cui vivere. Per questo ho organizzat­o Ivreatroni­c, una serata elettronic­a in stile berlinese. Questa provincia è terreno fertile, basta buttare acqua e cresce la giungla». Quando ha smesso di insegnare? «Nel 2016. L’ho fatto fino alla fine del tour per L’ultima festa, poi a settembre ho rinunciato. Insegnavo Storia in un profession­ale, i ragazzi mi cantavano L’ultima festa ogni volta che entravo in classe, io mi incazzavo: “Oh, siamo qui per lavorare!”». Diventa più pop di album in album, sicuro che non diverrà una macchina da tormentoni? «Nel primo disco ero più cerebrale, poi ho deciso di far parlare la pancia, esprimere emozioni più personali. Sono una persona istintiva, anche volgare. Un discografi­co mi disse: “Marco, tu sei una bestia, devi mettere un po’ di quella bestialità nella tua musica”. L’ho fatto ed eccoci qua, ma non scriverò mai canzoni pensate per le radio».

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