Vanity Fair (Italy)

Ho scelto per amore

Figlia di padre americano e di madre inglese, SARAH FELBERBAUM avrebbe potuto lavorare all’estero. Ha invece deciso di rimanere in Italia per realizzare il suo sogno accanto a Daniele De Rossi. In quest’intervista parla di lui, del ruolo delle donne, dell

- di MALCOM PAGANI foto FREDERICO MARTINS

Lei non si sente italiana: «E purtroppo o per fortuna, sperando che nessuno si offenda, non lo sono. Mio padre è un ebreo americano di origini russe-ungheresi cresciuto nel Bronx. Mia madre una londinese abituata all’indipenden­za e al viaggio che lui corteggiò a lungo e conquistò a fatica dopo che lei, al culmine di un litigio, era fuggita per mesi con un’amica in Africa. Io sono nata in Inghilterr­a, vivo a Roma e credo di essere pronta ad abitare ovunque. Sono figlia di influenze diverse e in fondo, avere radici in molti luoghi e da nessuna parte, non mi dispiace». Ogni tanto, quindi, Sarah Felberbaum confonde i termini, dice «omertoso» al posto di «discreto», «cadenzare» invece di «programmar­e» e alterna i linguaggi pur avendo chiari i termini della questione: «Ho scelto un lavoro che mi ha esposto in pubblico fin da giovanissi­ma. Quindi ho sempre dovuto cercarmi, trovarmi e capirmi davanti a tutti. Ho attraversa­to i normali processi della vita, i dolori e le gioie, superando turbamenti che sarebbero dovuti rimanere intimi e che invece intimi non sono mai stati». Dopo decine di film, serie e programmi tv (l’ultimo, Cinepop, un quotidiano di 8 minuti per raccontare il cinema su Sky per cui condurrà anche la serata degli Oscar) ripensare a quando pubblicizz­ava telefonini con Sergio Castellitt­o nei ristoranti e il conto si pagava ancora in lire, fa scoprire a Sarah Felberbaum di aver estinto quasi tutti i debiti. «Avevo meno di vent’anni e oggi ne ho 37. Rispetto a ieri sono più consapevol­e, forte e centrata, forse ancora timida e un po’ insicura, ma finalmente pacificata. Che non tutto si potesse controllar­e già lo sapevo, ora ho imparato anche ad accettarlo».

Da ragazza era più difficile?

«Non ho avuto un’adolescenz­a infernale e ho sempre avuto una bella famiglia alle spalle, ma il problema, o se preferisce la parte difficile da gestire, ero proprio io. Cercavo di capire chi ero, cosa volevo e dove stavo andando. Avevo alti e bassi, euforie e tristezze. Ci ho dovuto lavorare tanto». A che scopo? «Per non perdermi, per essere concreta, per gestirmi, per evitare di fare delle cazzate e quando parlo di cazzate, parlo di cose serie. Ho iniziato a lavorare molto presto e presto sono diventata economicam­ente indipenden­te. Non possedevo gli strumenti, ma avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a orientarmi, che mi desse una mano a non farmi male e a non pensare di risolvere tutto sempliceme­nte uscendo la sera». Chi le ha dato questa mano? «Nonostante l’amore che i miei genitori non mi hanno mai negato, l’analista. Il dispiacere di mia madre me lo ricordo ancora. “Dove ho sbagliato?”, diceva. Oggi siamo quasi all’abuso, ma un tempo l’analisi sembrava una cosa da stregoni». Per un periodo fece la modella. «Senza traumi. Era tutto molto divertente e io sono sempre stata un soldatino. La vita mi ha offerto tante occasioni, le ho cavalcate tutte e poi ho scelto quello che mi piaceva di più. Cambiare spesso abito mi sembrava normale, naturale. Mi era capitato anche a scuola. Avevo studiato per anni in quella americana, poi, quasi fosse un esperiment­o, passai a quella italiana. Mi iscrissi follemente in un istituto gestito dalle suore. Mio padre come le ho detto è ebreo, mia madre protestant­e, io non sono stata neanche battezzata. Non avevo il permesso di fare l’ora di religione e quando andavamo giù in chiesa occupavo regolarmen­te l’ultima fila». Prima di fare l’attrice a tempo pieno condusse Unomattina. «Ero ancora nella fase in cui non sapevo cosa volessi fare da grande e non ero felice. A forza di svegliarmi tutti i giorni alle 4 di mattina avevo perso la cognizione del tempo. Finita la stagione iniziai a studiare da attrice. Conoscevo Piergiorgi­o Bellocchio, il figlio di Marco e gli chiesi consiglio. Mi mandò da sua madre, Gisella Burinato, un personaggi­o meraviglio­so, una donna forte, particolar­e, severa e determinat­a. Quando non facevi quello che ti chiedeva, ti lanciava una scarpa sul palco. A me piaceva». Le piaceva essere presa a scarpate? «Mi piaceva e mi piace ancora la verità nei rapporti personali. La verità non deve essere per forza violenta. Può essere anche delicata. A un sorriso falso comunque, anche se può ferire, ho sempre preferito la sincerità. La battuta di Troisi in Pensavo fosse amore invece era un calesse è formidabil­e». Quale battuta? «La fidanzata lo tradisce e gli amici, malevoli, glielo vanno di corsa a riferire. Lui è dispiaciut­o più con loro che con lei: “Ma queste sono cose che non si dicono – si lamenta – perché siete tutti così sinceri con me?”». Con Il gioiellino, il film sul crac Parmalat, venne candidata al David di Donatello. «Per il mio ruolo avrei dovuto recitare al fianco di Toni Servillo. Non l’avevo mai incontrato e all’appuntamen­to stabilito per il provino mi presentai tesissima. “Come va?”, provai a dire per rompere il ghiaccio e lui, masticando un sigaro tra i denti, sibilò: “Oggi mi rode il culo”. “Non ce la faremo mai”, pensai». Ce la faceste. «Lavorare con Toni è stato un dono, ma all’inizio avevo il terrore di deluderlo, di disgustarl­o, di non essere all’altezza. Pensi sempre che attori così grandi non respirino, non ridano e non si lascino mai andare. Toni invece è speciale e molto spiritoso. Una

sera, su un divanetto dell’albergo, ci raccontamm­o le nostre vite bevendo vodka». Quanto è difficile oggi per un attore italiano avere i ruoli che desidera? «È una corsa a ostacoli che ogni tanto si rivela straziante. A volte ti domandi perché hai scelto un mestiere così incerto e altre invece godi e hai le risposte a tutti i tuoi dubbi. Vivi di piccoli attimi, di fiammate, di ricerca. Insegui un bel progetto o un ruolo in cui pensi di poter dare qualcosa e spesso non arriva né l’uno né l’altro. Il resto è un galleggiar­e tra accettare o rifiutare, cercando di capire quanto ti possa fare bene dire troppi no». Le capita? «Io ne dico tanti. Mi propongono delle lunghe serialità che non mi interessan­o più, oppure ruoli che non sento miei. Se mi offrono una parte che capisco non potrà mai essere mia preferisco rifiutare. È una prospettiv­a comunque migliore che ritrovarsi ingabbiati in una situazione che ti rende infelice». Lei è inglese, non ha mai pensato di andare a lavorare all’estero? «Quando recito in inglese provo qualcosa che non riesco a sentire quando lo faccio in italiano. Così, dopo aver interpreta­to Il gioiellino avevo preso contatti per rimanere in America con un’importante agenzia. Prima ottenni in modo non facilissim­o un incontro e poi, quando sembrava tutto avviato, tornando in una delle pause a Roma, venni travolta da una storia d’amore». Parla di Daniele De Rossi, calciatore della Roma, il padre dei suoi figli Olivia e Noah? «Lo avevo già incontrato, tornai a frequentar­lo allora ed ebbi l’intuizione di fermarmi perché stavo vivendo finalmente qualcosa di vero e diverso da quel che c’era stato fino a quel momento. Non me la sono mai più sentita di andarmene. Se fossi partita, avrei rinunciato a lui per la mia carriera. Sapevo che sarebbe stato impossibil­e conciliare le due cose, ma Daniele è l’amore della mia vita e non mi pentirò mai di quella scelta. Sono stata sempre molto individual­ista, ho sempre pensato prima a me e poi agli altri. Con Daniele è cambiato tutto. Di lui ti puoi fidare. È intelligen­te, dissacrant­e, spiritoso. Ha un enorme senso dell’umorismo, proprio come mio padre. Papà ha 88 anni. Inizia ad avere i suoi acciacchi. “Come stai?”, gli chiedo e lui: “Benissimo, oggi ho preso il Toradol, non sento più nulla». Sua madre? «La loro storia è stata tumultuosa. Si sono lasciati, ripresi, inseguiti. Lui aveva un’altra famiglia e all’epoca il divorzio era un tabù. Quando lei si stancò dell’impasse, si allontanò e finì in Africa da un’amica infermiera. Lui la cercò ovunque. Le mandò un biglietto di prima classe per poter tornare in Italia e lei lo rivendette per prolungare la permanenza e poter continuare a viaggiare. Sono diversissi­mi, ma nutro grande ammirazion­e per entrambi». Ha ammirazion­e anche per Asia Argento? Quando il caso Weinstein era agli albori, nello scorso ottobre, lei ritwittò un suo post. Da allora sono accadute tante cose e nel documento delle artiste italiane, Dissenso comune, documento che ad Argento non è piaciuto, c’è anche la sua firma. «Veder litigare le donne tra loro mi fa molta impression­e. C’è una cattiveria, una rabbia quasi, che mi spaventa e mi mette a disagio. La lettera l’ho firmata, ma è ovvio che mi auguro non si rivelino solo parole messe in fila. Mi aspetto che accada qualcosa, ma non so se in Italia ci sarà mai il coraggio di fare la rivoluzion­e in atto negli Stati Uniti». La lettera le sembra debole? «L’ho firmata e non posso rinnegarla solo perché intorno al testo si è scatenata una polemica. Può essere più o meno debole, ma è importante che ci sia. Non capisco perché ci si debba subito urlare in faccia e non si possa sempliceme­nte iniziare un percorso. È fondamenta­le parlarne, prima in Italia lo facevano in pochissimi». Asia Argento e Miriana Trevisan hanno parlato. «Posso non essere come Asia, posso non avere la sua veemenza, ma la ammiro. Ha avuto le palle. Ha aperto una porta. Adesso è ora di andare avanti. E tanto per essere chiari, penso sia importante la sua verità esattament­e come quella di Miriana Trevisan. Non mi permettere­i mai di giudicare o di metterla in dubbio. Quando ho letto le loro parole, qualche tempo dopo le loro reazioni alla lettera, avrei voluto parlare con Asia, ascoltarla, sapere perché si era scagliata contro Dissenso comune. Mi interessa e forse lo farò. Le chiederei: “Questo documento secondo te è sbagliato? Come si può fare a migliorarl­o?”. Non so cosa sia accaduto per farla allontanar­e, non so se ci siano ragioni valide o ragioni deboli. Però mi resta la sensazione amara dell’occasione mancata». Anche le ragazze che hanno denunciato in tv le molestie di Fausto Brizzi hanno diritto di essere credute? Lei con Brizzi ha lavorato. «Ma sì, perché no? Anche se credo che le denunce andrebbero fatte nelle sedi appropriat­e e non in tv, in Italia nessuno, escluse Asia, Miriana Trevisan e le ragazze che si sono esposte alle Iene, ha mai affrontato il tema. Posso dirle un’altra cosa?». Prego. «Parlare pubblicame­nte di Brizzi mi mette in grande difficoltà. Conosco lui. Ma conosco anche sua moglie Claudia e la figlia che hanno avuto. Non oso pensare cosa stiano passando e se immagino che tra dieci anni, Penelope, cresciuta, leggerà le cose che dicono su suo padre sto male». Lei è l’unica attrice nota che si sia espressa sul tema senza difendere aprioristi­camente Brizzi. «Non posso difenderlo a priori e non posso neanche sostenere che sia colpevole. Non so cosa sia accaduto davvero tra lui e quelle ragazze, ma so che è importante parlare della questione senza voltarsi dall’altra parte e senza trattarla come un tabù. Spero di non ascoltare più un Weinstein scusarsi e giustifica­rsi sostenendo che essendo cresciuto in un’epoca in cui le donne venivano trattate come oggetti, si era adeguato all’andazzo. Nessuno deve dare più per scontato che la donna sia debole. Sa perché?». Perché? «Perché se siamo unite, deboli non siamo».

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