Vanity Fair (Italy)

In nome di Wondy

Un’associazio­ne, un premio e, ora, un libro. A oltre un anno dalla morte di sua moglie Francesca Del Rosso, ALESSANDRO MILAN continua a tenerne vivo il ricordo. Con amore e rabbia, che riesce a fare uscire assieme alle lacrime

- di SILVIA NUCINI

Lo sai. Certo che lo sai, ovvio che lo sai. Lo sai in ogni momento del giorno e pure di notte, mentre sogni, e non vi rivedete nemmeno lì. Lo sai benissimo, eppure ci sono dei momenti, piccoli, in cui non lo sai più. E fai pensieri sciocchi, tipo di poter telefonare, o gesti sciocchi, tipo mettere anche il suo piatto, a tavola. Poi ti ricordi e ritiri tutto: la mano col piatto, il dito dal telefono. E vai avanti. Wondy-Francesca Del Rosso non c’è più da un anno e due mesi e Alessandro Milan, suo marito, va avanti. In un modo in cui non pensava sarebbe mai stato capace. «Mi vivi dentro», le aveva scritto salutandol­a in una lettera pubblicata su Facebook dopo che le metastasi di un cancro al seno ostinatiss­imo l’avevano portata via. Tre parole d’amore che sono diventate una profezia: «Penso davvero che qualcosa di Francesca sia entrato in me. Lo riconosco in quella voglia che mi è venuta di mordere la vita, nella curiosità che ho verso le persone, io che sono sempre stato un orso. Mi sono ritrovato sfrondato delle parti del mio carattere di cui non andavo orgoglioso e ne ho scoperte altre, migliori». Dal pezzo di Francesca dentro Alessandro sono germogliat­e tante cose: l’associazio­ne culturale Wondysonoi­o, il «Premio Wondy per la letteratur­a resiliente», che verrà assegnato per la prima volta il 5 marzo prossimo, e un libro, resiliente pure lui, che Alessandro ha scritto questa estate, mentre Angelica e Mattia, i loro figli, sbirciavan­o il computer da dietro le sue spalle. Il libro si chiama Mi vivi dentro anche lui, come la profezia, come la frase scolpita sulla lapide di Francesca, come la verità delle cose. Nel libro, che lui definisce «la storia di un amore normale in cui c’è la vita di due come ce ne sono tanti», il racconto del «dopo» si intreccia con quello dell’ultimo mese e mezzo della vita di sua moglie.

Ma niente è cupo, e su più di una pagina si ride davvero. Sulla copertina c’è disegnata una farfalla, come quella che, bianca, Alessandro ha incontrato in diverse occasioni, dopo che Francesca se n’è andata. «Ho pudore, non voglio passar per matto. E poi, per carità, mi puoi dire che le farfalle esistono anche a Milano, e io alzo le mani». Che cos’è la resilienza, quando la devi praticare tutti i giorni? «Tempo fa ho letto un proverbio cinese che diceva: quando soffia il vento del cambiament­o, c’è chi erige muri e chi costruisce mulini. Mi piaceva molto, mi sembrava una definizion­e perfetta, però poi la mia amica Jessica, che è cinese, mi ha detto di non averlo mai sentito. La mia personalis­sima immagine di resilienza è questa: io sono nudo in mezzo alla neve, con una montagna davanti. Posso stare fermo e sperare che la montagna si sposti – cosa che mi risulta succeda molto raramente – oppure camminare per non morire di freddo. Io ho deciso di camminare, lo decido ogni giorno. Passo attraverso il mio dolore, che è come un muro, e io cerco un varco tra i suoi mattoni». Ha creato molte iniziative, tutte nel nome di Francesca. Non teme che stare immerso nel ricordo, nella memoria, possa prolungare il suo dolore? «Me lo sono chiesto spesso, e ogni volta mi sono risposto che per ora va bene così. Certo, quando porto in giro la mostra fotografic­a dedicata a lei, la vedo ma non la guardo, o forse la guardo, ma non la vedo. Insomma mi fa male. Ma non è un dolore che mi tiene lì. Come scrivere il libro: non è stato facile, ho pianto tanto. Ma era un pianto bello, come se dagli occhi uscisse, insieme alle lacrime, del veleno». Che cos’è questo veleno? «Un po’ di rabbia: Francesca è stata sfortunata e questo va detto. E, anche se ha vissuto così intensamen­te che la sua unica e breve vita equivaleva a cinque di quelle delle persone normali, penso che avrebbe potuto ancora fare tantissimo. Ho rabbia per le cose spezzate, per lei e per i bambini, che sono reattivi e resilienti anche loro, ma non è la stessa cosa crescere senza la mamma. Angelica e Mattia hanno, a loro volta, rabbia; a volte fanno di me un capro espiatorio, a volte non capiscono perché questa cosa gli sia toccata in sorte. Ma siamo ancora, e sempre, una famiglia. Ci immagino come un quadrato con un lato aperto, da cui entra un po’ di freddo». Nel libro racconta che lei e Francesca non avete mai parlato della fine, anche quando era evidente che fosse vicina. «Dovevamo farlo, forse. Ma per dirci cosa? Io aspettavo che lei avesse il coraggio di cominciare il discorso, forse lei, quel coraggio, lo aspettava da me. Ma anche senza le parole ci siamo parlati lo stesso. Con gli occhi e con il quaderno su cui scriveva le sue ultime volontà e lasciava sempre in giro in modo che io lo potessi trovare e leggere». Eppure tempo prima si era fatta promettere che, se le cose fossero diventate difficili, lei l’avrebbe portata in Svizzera a morire con dignità. «Sì, e l’avrei fatto. Ma non ce n’è stato bisogno, perché è successo tutto velocement­e e perché Francesca è stata accompagna­ta benissimo verso la sua fine. So che non per tutti è così, so che alcuni malati vengono abbandonat­i nel dolore, e invece basterebbe poco per andarsene in modo umano». L’associazio­ne le ha fatto incontrare altre storie che assomiglia­no alla sua? «Wondysonoi­o e i social mi mantengono in contatto con molti malati e famigliari. Ma non è la Grande Rete del Dolore, anzi. Alla fine incontro persone che si ritrovano nella forza e nella reattività, che sono le stesse doti che hanno accompagna­to Francesca nella sua vita e nella sua malattia. Camminare, andare avanti, è la mia strada per guarire. Ma dicendolo non voglio dare un giudizio su chi invece si ferma. Non c’è un modo giusto e uno sbagliato, ognuno ha il suo». Volere andare avanti si porta dietro una quo ta di senso di colpa? «Certo. Mi chiedo ogni giorno perché lei sì e io no. Ma, più che con il senso di colpa, faccio i conti con l’idea dell’irreversib­ilità. Mi capita di camminare per casa, e dire ad alta voce: è morta. E ripensare a quella volta in cui le ho risposto male, alle tante cose che non le ho mai detto. Ecco, è il tempo sprecato quello che mi fa soffrire più di ogni altra cosa. So che sono destinato a fare pace con questi rimpianti, ma devo avere pazienza. Allontanar­si dal giorno in cui se ne è andata allinea le cose in una prospettiv­a diversa: certi dolori diventano meno taglienti. Ma purtroppo il tempo attenua anche i ricordi. Di Francesca ho mille registrazi­oni audio perché tutte e due abbiamo lavorato in radio, ma se non le ascolto, e rimango nel silenzio dei miei pensieri, la sua voce non me la ricordo più. E lo stesso è per i gesti più banali, quelli di tutti i giorni: come si lavava i denti?». C’è un posto dove la ritrova? «Non certo al cimitero, dove sono andato due volte. L’ultima ho portato anche i bambini, che si sono distratti subito a leggere i nomi e guardare le foto degli altri. La ritrovo in mia figlia Angelica, che è caparbia come lo era lei, legge un sacco di libri e ha già detto che da grande vuole fare la scrittrice; la ritrovo dentro di me ogni giorno ogni ora, e anche forse in quella farfalla bianca, chissà. Una volta le ho fatto un video, lo vuole vedere?».

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy