FUOCO SULLA SPIAGGIA»
«IL SET È L’UNICO AMBIENTE CHE PROLUNGA ALL’INFINITO L’ADOLESCENZA: È SEMPRE CONDIVISIONE, TAVOLATA,
La verità, vi prego, sul mestiere: «Fino all’adolescenza non immaginavo neanche lontanamente di fare l’attore. Però mia madre Rosa era la guardarobiera del Derby di Milano, io passavo lì tutte le sere e, a forza di frequentare l’ambito del cabaret, finii per rimanere coinvolto in quell’ambiente. Facevo il tecnico delle luci per I Gatti di Vicolo Miracoli e un giorno, credo fosse l’estate del 1975, li accompagnai a un provino per il film Liberi armati pericolosi. Eravamo seduti tutti insieme, generici e aspiranti attori, davanti alla Statale di Milano e Romolo Guerrieri, il regista, mi chiese se volessi recitare in una scena. «Sono 8.000 lire al giorno». Per 8.000 lire sarei andato a piedi in Patagonia e risposi subito di sì. «Hai la patente?», domandò e capii che la domanda era determinante, no voleva dire andare a casa. Io dissi ancora sì, mentendo e stupendo anche me stesso. Poi mi misi alla guida e al secondo tentativo di sgommata la bugia mostrò tutte le sue crepe. Scesi, lo guardai negli occhi e confessai: «La patente non ce l’ho». Lui prese un tipo riccio, lo mise al mio posto, lo inquadrò di tre quarti ed ebbe la magnanimità di non allontanarmi dal set. L’avventura nel cinema iniziò così, 43 anni fa». Per il suo 70esimo film (l’esilarante, attualissimo Puoi baciare lo sposo di Alessandro Genovesi, produce Maurizio Totti, distribuisce Medusa dal 1° marzo) gli è toccato in sorte il ruolo del sindaco progressista di un piccolo paese alle prese con il matrimonio gay di suo figlio e non più così certo, all’improvviso,
«DA RAGAZZO ERO IGNORANTE E MOLTO TIMIDO, MA ASCOLTAVO. UNA SERA CON PAOLO VILLAGGIO VALEVA UN ANNO DI SCUOLA»
della propria apertura mentale. Partire da un personaggio dichiaratamente libertario e democratico che si riscopre gretto e omofobo, dice: «Ha reso il film più interessante e credibile. Il contrasto gli ha donato ricchezza, io ho provato a immaginare come l’avrebbero interpretato Sordi, Gassman o Tognazzi. Forse non ci sono riuscito, ma il tentativo, come sempre, l’ho fatto». Ha citato persone che ha conosciuto bene. «Ormai ho la sindrome di Gianni Morandi e la sensazione di esserci sempre stato. È come se non ci fosse mai stato un inizio e – cosa più importante – non ci sia ancora la fine». Verdone sostiene che l’unica misura del successo sia la longevità. «Attraversare un’epoca è importante. Io, Carlo e pochissimi altri l’abbiamo fatto. Con i buoni, con i cattivi, con quelli che apprezziamo e con quelli che non stimiamo. Facendo ottimi film e film meno riusciti, ma durando nel tempo». Sordi, Gassman e Tognazzi sono stati i più grandi? «Non dimenticherei neanche Mastroianni e Volonté. Oggi li citi e i ragazzi non sanno chi siano. Ti guardano con gli occhi della mucca che osserva il treno passare e ti dicono: “Scusami, ma io sono nato nel 1990”». E lei cosa risponde? «Che essere nati nel ’90 non significa un cazzo. Seguendo lo stesso principio io non dovrei sapere nulla di Garibaldi o delle Piramidi d’Egitto. Da ragazzo ero ignorante e molto timido, ma sapevo ascoltare. Trascorrevo una serata con Cochi, con Pozzetto, con Jannacci o Dario Fo e, una volta tornato nella mia stanzetta, passavo ore a guardare il soffitto e a ricordarmi tutti i dialoghi. Memorizzavo ogni cosa. Ero attento, curioso, felice di bere alla fonte di chi della vita sapeva più di me, grato a chi sapeva affabulare la platea». Cosa è cambiato? «Manca la cultura del passato. Non è che un adolescente di oggi, con il mondo a portata di clic, non sarebbe in grado di colmare le proprie lacune: è che non gli interessa proprio. Per me dividere una serata con Paolo Villaggio valeva un anno di scuola». Villaggio le manca? «Come Beppe Viola, Villaggio era due giorni avanti agli altri. Quando vivevo ancora a Roma uscivamo spesso insieme. Aveva una specie di mappa culinaria della città. Conosceva bettole e trattorie di ogni natura perché a Paolo mangiare, soprattutto fuori orario, piaceva. L’ho osservato succhiare parecchia roba surgelata, a partire da certe incredibili peperonate appena tirate fuori dalla busta, anche alle quattro del mattino». Maniaco della tavola era anche Tognazzi. «Apriva munificente la casa di Torvajanica e riuniva gli amici chiedendo i voti a fine pasto. Una sera lo vedo eccitato, febbrile, ansioso di mostrarci una portata speciale: “Vedrete che dolce, un’opera d’arte”. Arriviamo al momento fatidico ed entra un carrello con qualche fetta di panettone accatastata alla rinfusa. Ugo cambia colore, sbianca, avvampa, poi scomoda qualche santo, comincia a urlare e afferra un corpo contundente per inseguire il cameriere. Mi frappongo per dargli il tempo di riparare in cucina e calmare Tognazzi. Il panettone avrebbe dovuto avere la forma di un tacchino, ci aveva lavorato tutto il giorno». Un attore è anche carattere. «Volonté ne possedeva uno particolarissimo. Tanto Ugo era aperto e solare, tanto Gian Maria ombroso e misterioso. Avrei dovuto lavorare con lui in un film di Comencini e prima di arrivare sul set avevo chiesto ad alcuni amici comuni di darmi una mano a inquadrare il personaggio: “Ma è vero che non parla con nessuno?”». Era vero? «Gian Maria aveva deciso di posizionarsi esistenzialmente da un preciso lato della barricata e io desideravo stare sullo stesso lato. Così lo studiai, mi avvicinai e, al momento di scoprire le carte, mi giocai bene quelle che avevo in mano per conquistarlo». Come fece? «Un giorno scendo dal letto e non vedo le scarpe. Ribalto la stanza, chiamo il concierge, cerco di capire come sia potuto accadere e scoglionatissimo mi presento alla convocazione sul set. Appena lo vedo, abbassa lo sguardo verso i suoi piedi. Indossa le mie scarpe e cerca la provocazione sperando in una mia reazione». E lei reagisce? «Lo spiazzo, rido, lo abbraccio. Da quel giorno siamo stati amici per sempre». Un attore è destinato alla solitudine? «Al contrario. Il set è l’unico ambiente che riesca a prolungare all’infinito l’adolescenza. È sempre tavolata, fuoco sulla spiaggia, condivisione. Si fa squadra e tutti giocano la stessa partita». Che adolescenza ha avuto Abatantuono? «C’erano momenti che sembravano lunghissimi, interminabili, eterni. Se mi mettessi a raccontare del mio primo amore o delle prime vacanze fatte da solo spenderei molte più ore che non a descriverle il resto della mia vita. Accade quasi tutto in quel momento, dai 13 anni ai 20 anni, l’istante in cui si decide che strada tu debba prendere e ciò che viene dopo è molto più veloce. Sembra più facile, meno importante o forse soltanto meno interessante. Mi pareva che il tempo durasse il triplo e oggi purtroppo vola». Come passava il tempo allora? «A volte, spesso, a non far niente. A nuotare, a corteggiare ragazze, a tirare i noccioli delle pesche contro una parete. Con l’età cambia anche il modo in cui si vedono le cose e se ti guardi indietro deformarle, modificarle e renderle più liete è una licenza verso cui non provare indulgenza è impossibile. Dicono che sia esperienza, in realtà è soltanto una zanzata». Una cosa? «Una zanzata. Un piccolo furto che ti concedi perché è più bello raccontare una storia in cui fai bella figura di una in cui sei il pirla della compagnia». Si è mai sentito tale? «Un po’ coglione, per ingenuità, mi son sentito eccome. Passai dal mondo del cabaret a quello del cinema con troppa rapidità e ottenni subito un successo che si rivelò violentissimo. Non ero per niente attrezzato». Il Messaggero, intervista del 1983: «Spingevo come un somarello, quando nasci povero e vedi tanti soldi tutto sembra immaginazione». Tra l’80 e l’83 lei interpretò 17 film. «Troppi. Così tanti non ne girava neanche Sordi. Ne usciva uno e, mentre quello era ancora in sala, si preparava l’uscita dell’altro. Io ero molto giovane, non capivo, non ero pronto a un successo e a una popolarità che si rivelarono esagerati. Sproporzionati. Non
potevo uscire di casa e con la mia fisicità nascondersi non era semplice. Subii. Pagai personalmente per gli errori fatti e caddi nei tranelli che mi vennero tesi dalle persone che mi sarebbero dovute stare vicino». Di cosa parla? «Venni raggirato. Qualcuno mi ingannò e al momento di comprare una casa, un momento agognato, scoprii all’improvviso che invece di poter contare su una piccola fortuna ero senza una lira. Pensavo di potermelo permettere e non potevo. Fu una bastonata. “L’Iva te la paghiamo noi, Diego. Non preoccuparti”, mi diceva il mio agente che poi divenne uno dei più importanti produttori italiani». E invece? «Invece non lo fece, ma fece tante altre cose tra cui sottrarmi sotto il naso un libretto al portatore. Gestì in modo delinquenziale quella che per me era un’opportunità. Venni turlupinato e dovetti ripartire da zero. Feci decine di migliaia di chilometri come una trottola da nord a sud. Serate, spettacoli, sagre. Mi rimisi in piedi con grandissima fatica. Poi, grazie a dio, ogni tanto vincono anche i buoni e incontrai Maurizio Totti. Il produttore che mi salvò letteralmente la vita. Senza di lui non so se ce l’avrei fatta. Ancora oggi è tra i miei amici più cari». Era arrabbiato? «Più che arrabbiato, disperato. Oltre alla voragine economica, mi ritrovavo con la carriera finita. Dovevo pagare le tasse e non avevo i soldi e in più, dal giorno alla notte, nessuno mi offriva più una sola parte. Il personaggio, a forza di essere sfruttato ogni oltre ragionevole misura, si era esaurito». Nel 1986 Pupi Avati le offrì Regalo di Natale. Il film che fece ripartire la sua carriera. «Pupi mi cercava e mi trovò per caso, a casa di una mia antica fidanzata, grazie a un equivoco. Un mio amico, Fabrizio Corallo, gli diede il numero di telefono sbagliato. Pupi chiamò e il caso volle che io mi trovassi proprio lì. Si intrecciarono tre o quattro casualità nello stesso momento e quando accade io non penso più al caso, ma al destino». Che anni furono gli anni ’80? «Sul set, nonostante i film ai quali prestai il volto non fossero tutti capolavori, credo di essermi comportato bene. Tirai il carretto senza chiedermi perché, ma credo sia più difficile essere un attore comico che drammatico. Si pensa sempre che chi prende i premi sia il più bravo a prescindere e che le maschere non valgano niente. Sa che le dico? È un grande equivoco». Perché? «Perché è più difficile fare Eccezzziunale veramente che Regalo di Natale. Di buoni attori ce ne sono centomila, di maschere che diano al personaggio una marcia in più pochissimi. Sordi cos’era? Una maschera o un attore? E Gassman? E Tognazzi, che partì facendo gli sketch con Vianello? Se non hai Walter Matthau il film arranca, ma se metti De Niro o Pacino, il film viene ugualmente bene. Poi certo, se togli al Pierino di Vitali le Fenech sotto la doccia cosa resta? Un film di 20 minuti. I film di Pozzetto, Verdone o Troisi erano diversi». Cosa le manca? «Un western. Uno l’ho anche scritto e, sperando che qualcuno me lo offra, un giorno lo farò. Certo se non si sbrigano mi rimarrà solo la parte del vecchietto nel saloon». Dicono che lei abbia un carattere aspro. «Ho un carattere, che è una cosa diversa. Ho sempre detto la verità e ho una fisicità e una personalità che ha portato forse a pensare che fossi arrogante, ma io, conoscendomi a fondo, so di non esserlo. Sono sincero, dico sempre quello che penso, e questo, con il corpaccione e il faccione che mi ritrovo, può dare la sensazione di tracotanza». Com’è davvero Abatantuono? «Generoso e non calcolatore. Non sono mai stato furbo, quello è poco ma è sicuro». Se si guarda indietro cosa vede? «Molte immagini. Io bambino al Giambellino. Eravamo gente povera, ma essere figlio unico mi rendeva automaticamente più borghese. A Carnevale mi regalarono un vestito da Zorro in una confezione di plastica che per aprirla serviva la fiamma ossidrica. Con il mio cappellino e il mio mantellino scendevo in cortile tutto gasato. Poi appena incontravo i miei coetanei con un bastone della scopa in mano, la spada si rivelava per quello che era e si spezzava. Risalivo su, mia nonna la metteva vicino al fuoco e me la riattaccava rimpicciolendola. A sera era di pochi centimetri, assolutamente incongrua, ridicola, inadeguata. I nonni sono stati importanti. Uno faceva l’imbianchino, tornava a casa, poggiava pennello e scala, mi sistemava il sellino sulla canna della bici e mi portava in giro. La cava di via Lorenteggio, all’epoca, sembrava il mare». La famiglia del patriarca Diego? «Non l’ho mai confusa con il lavoro e ho provato a tenerla sempre insieme. Con l’altro mio nonno, Pasquale, che parlava soltanto pugliese, facevamo le vacanze insieme. A 85 anni prendeva la sua sedia e si metteva a Morciano, in Romagna, a vedere me e i miei figli giocare a pallone. Tiravamo bordate terrificanti e ci preoccupammo. Allora lo mettemmo dietro l’albero di ciliegie. A ogni tiro, gli piovevano sulla testa le cerase». Il calcio è stato importante. «Come raccontavo in una vecchia gag inventata con il mio amico Sangalli, una volta trovai per terra il portafogli di mio nonno con due foto ingiallite. In una c’era Padre Pio e nell’altra Rivera. Chiesi chi fossero e lui disse: “Uno è un popolare frate pugliese, l’altro fa i miracoli”. E Rivera i miracoli li faceva». Cos’altro non ha dimenticato? «Le volte in cui i miei amici non sono stati tali o si sono dimenticati di invitarmi a una festa, come accadde a Kastellorizo, per la chiusura di Mediterraneo. Li ho perdonati, ma non ho dimenticato. Con il mio carattere non sarebbe mai successo. Io parto per il set la mattina e voglio che tutti siano felici». A maggio avrà 63 anni. Si sente più buono? «L’unico regalo, nel diventare più anziani, è che si diventa saggi. Ma il saggio, pur riflettendo a fondo, si incazza comunque».
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