Vanity Fair (Italy)

CHE COSA MI SONO MESSO IN TESTA

- di CHRISSY ILEY foto NORMAN JEAN ROY

Con una pettinatur­a afro come non aveva mai osato, DENZEL WASHINGTON interpreta un avvocato eccentrico che potrebbe portarlo a vincere il terzo Oscar. Ma il suo obiettivo adesso, oltre ai premi, è affrontare l’«ultimo quarto» di vita in forma smagliante. E rispettand­o quella profezia che gli fecero molti anni fa: che sarebbe diventato un predicator­e e con il suo lavoro avrebbe parlato a milioni di persone

Ci troviamo nella camera d’albergo di un grattaciel­o di New York. Fuori fa un freddo polare. Denzel Washington indossa un abito nero molto elegante, i suoi capelli sono perfettame­nte a posto. Niente a che vedere con il personaggi­o che interpreta nel suo ultimo film Roman J. Israel, Esq. e per il quale è candidato agli Oscar come miglior attore protagonis­ta: un avvocato brillante ma assai eccentrico, abituato a dire sempre la verità e la cui vita va in rovina. Nella maggior parte delle scene indossa un abito bordeaux oversize un po’ fuori moda e ha un’acconciatu­ra mini afro. «Le sembra un abito bordeaux?». Le sopraccigl­ia si aggrottano. «Io pensavo fosse color vinaccia. Non crede ci sia una differenza tra bordeaux e vinaccia?». È combattivo e in forma smagliante. «E poi che cosa intende con “mini afro”? È una pettinatur­a afro, e basta!». Gli spiego che l’hair stylist del film mi ha confidato che quella è stata un’idea di tutti e due. «Come?», ribatte offeso. «È stata una mia idea ed erano i miei capelli. Mini! Ci sono voluti sette mesi di duro lavoro. Era un’acconciatu­ra afro fatta e finita. Adesso non mi va più di parlarle». Incrocia le braccia in maniera teatrale e si lascia andare contro lo schienale del divano. «Avrei dovuto tenerla quando me l’hanno tagliata. Conservare i capelli è una cosa tipica della comunità nera. Quando è nato mio figlio, il primo anno gli abbiamo tagliato i capelli e li abbiamo tenuti. Un po’ come conservare i dentini da latte». Il film è stato scritto per Washington dal regista Dan Gilroy, che si è ispirato al ruolo interpreta­to dall’attore nel 2012 in Flight. La scena che lo aveva stregato era quella dove il pilota ammetteva di essere un alcolista. Quella vulnerabil­ità è alla base dell’interpreta­zione di Denzel in Israel: generoso fin quasi alla follia, intelligen­te in maniera lacerante, incontroll­abile quando si tratta di sandwich al burro di arachidi e delle canzoni contenute nel suo grosso iPod ormai fuori moda. Con questo personaggi­o singolare ma pieno di umanità, ti porta a stare dalla sua parte come solo lui sa fare.

A63 anni, Washington sta entrando in quella fase della vita che definisce «ultimo quarto». Il sessantesi­mo compleanno è stato un punto di svolta, da allora ha deciso di concentrar­si sul benessere fisico e mentale. Il suo aspetto è carismatic­o e riflessivo. Ride molto, quando lo fa gli brillano gli occhi e sfoggia un sorriso brillante. Adora chiacchier­are. Ma credo che non ami essere intervista­to. Tifa per la squadra di football americano dei Dallas Cowboys, i cui giocatori, come quelli delle altre squadre della Nfl, per protestare contro le diseguagli­anze razziali e la brutalità della polizia, tempo fa avevano deciso di inginocchi­arsi durante l’inno nazionale. Il proprietar­io dei Cowboys aveva poi minacciato di lasciare a casa quelli che si erano messi in ginocchio. «Devi far sentire che sei tu il capo», commenta senza prendere chiarament­e posizione. «Ti puoi inginocchi­are, ma non lamentarti se poi vai a casa, ok? È un Paese libero. Protestare è un diritto. Li hanno messi in panchina? Non credo. Non si può mettere in panchina tutta la squadra». Fa molta attenzione a non fungere da portavoce delle questioni della popolazion­e nera. In occasione di un discorso tenuto lo scorso anno al National Theatre di Londra, ha però detto: «Neri, non parlate delle cose che i bianchi non vi danno. Io i ruoli li ho avuti!».

Denzel è sposato con l’attrice Pauletta Pearson da 35 anni, da prima che iniziasse la sua carriera cinematogr­afica. Hanno due figli e due figlie, tutti laureati. La maggiore, Katia, è stata una delle produttric­i di Barriere, che lui ha diretto e interpreta­to e per il quale l’anno scorso Viola Davis ha vinto l’Oscar. Il figlio più grande, John David, ha giocato a football americano da profession­ista, ma ora lavora in television­e e nel cinema. Il minore, Malcolm, si è laureato in regia all’American Film Institute e ha collaborat­o con Spike Lee, mentre la sua gemella Olivia si è fatta strada nel cinema e a teatro. «Le ho consigliat­o di essere la migliore, di imparare a recitare sul palcosceni­co e non al cinema. Di non accettare compromess­i e di non lasciarsi intimidire. Sta andando bene», dice con orgoglio. Le sue figlie hanno 26 e 30 anni: si preoccupa delle rivelazion­i sulle molestie? Annuisce. «Il movimento #MeToo sta già cambiando questo settore. Sono certo che ci fosse chi pensava di riuscire sempre a cavarsela, e adesso forse non ne è più tanto sicuro. O meglio, spero proprio che abbiano paura. Credo che tutto il mondo del cinema cambierà in meglio. Quanto ad Harvey, sono quasi dieci anni che non parlo con lui». E con questo la questione Weinstein è chiusa.

Washington ha ora in programma una commedia a Broadway, Arriva l’uomo del ghiaccio, di Eugene O’Neill. Per la stessa interpreta­zione Kevin Spacey, ora in disgrazia, aveva ricevuto molte lodi. Come si sente a prendere il suo posto? «Ma non è così! ». Gli occhi ardono di rabbia. Eppure fa lo stesso personaggi­o. «E con ciò? Sono stato anche Otello ma lei non si mette certo a pensare agli altri attori che lo hanno fatto». Proprio oggi ho letto un articolo su Washington e i ruoli che non è riuscito ad avere. In Grido di libertà stava per non farcela. Richard Attenborou­gh gli disse: «Se non trovo un africano, allora vai bene tu». «Io non me la ricordo così. Fu una specie di riunione, ma io arrivai pronto per l’audizione e l’incontro andò bene». Be’, ne ha fatta di strada da «potresti andare bene» a un film scritto interament­e per lei: Gilroy ha spiegato che se non avesse accettato la parte, avrebbe messo il progetto in soffitta. «Sì, l’ho sentito dire».

«Da ragazzo andavo in centro a bighellona­re con tre amici. Uno poi è finito in prigione, uno è morto, il terzo fa il cuoco»

Spesso Denzel si comporta così, prende le distanze dai compliment­i. «Gradisce un orsetto di gomma?», mi chiede all’improvviso e me ne offre uno da un barattolo. «Lo vuole di un colore particolar­e? Ho rubato tutti quelli rossi». Li dispone sul tavolino. «Che cosa sceglie se i rossi sono finiti?». Arancioni. «Sì!», si infervora. «L’arancione è la scelta più ovvia, ma qualche volta prendo quello giallo. È più neutro. Guardi qua ... uno rosa!». Prendo quello. «Israel saprebbe esattament­e quanti ce ne sono dentro al barattolo, le calorie di ogni orsetto e le norme che regolano l’azienda produttric­e. Si ficcava sempre nei guai, poveretto». Gilroy ha detto che l’ossessione per i sandwich al burro di arachidi è stata un’idea sua: «Dan ha iniziato a mettere barattoli di burro d’arachidi ovunque. Un giorno, in cucina ho trovato 20 barattoli, per cui l’idea dobbiamo averla avuta entrambi». Ma adesso riesce ancora a mangiare burro d’arachidi? «Mi piace, ma con il miele. Io e l’attore Delroy Lindo siamo andati a scuola di teatro insieme, all’American Conservato­ry. Eravamo senza soldi. Avevamo del pane, un paio di litri di latte, burro d’arachidi e un barattolo di miele, e dovevamo farcelo bastare per una settimana». Non si è stufato? «Come se avessi potuto scegliere. Ero più stufo di morire di fame».

Denzel è cresciuto a Mount Vernon, periferia di New York. Sua madre era parrucchie­ra, il padre predicator­e. Da ragazzo, iniziò a frequentar­e cattive compagnie. Con tre amici «prendevamo il treno, saltavamo i tornelli e andavamo in centro a bighellona­re. Uno di loro si è fatto vivo quando recitavo nel Giulio Cesare a Broadway. Era stato in prigione per 28 anni. Un altro è morto, il terzo lavora come cuoco e sta bene». Le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa se la madre non avesse deciso di mandarlo all’accademia militare. «È vero. Due dei miei amici sono stati in prigione e l’altro ha perso i denti. È accaduto qualche anno fa. L’ho aiutato a rimetterli a posto ma è un po’ che non lo vedo». Adesso a New York c’è una scuola elementare che ha il nome di Washington, l’ex cattivo ragazzo che per il sessantesi­mo compleanno ha smesso di bere alcolici. «Ne avevo abbastanza. Ci sono cose che prima o poi ti stufano. Il burro d’arachidi ancora no, l’alcol sì. Ho smesso per cercare di essere sempre al meglio. Ho provato di tutto, adesso provo anche questo». Una cosa che non ha smesso di piacergli è tirare di boxe. Lo ha scoperto quando ha interpreta­to Rubin «Hurricane» Carter nel film Hurricane - Il grido dell’innocenza del 1999. Adesso è diventata un’abitudine. Washington è in forma, alto, forte, ma allo stesso tempo in lui c’è qualcosa di tenero che suscita affetto. È un grandissim­o appassiona­to di musica, e ha collaborat­o alla realizzazi­one della colonna sonora di Israel, una miscela di pezzi classici, funk e jazz degli anni Settanta: «Il mio personaggi­o ascolta continuame­nte musica, perciò volevo utilizzare canzoni diverse per poter costruire un archivio di quello che lui avrebbe ascoltato. Abbiamo selezionat­o 28 mila canzoni». Possiede davvero un grosso iPod vintage? «Ho tutti gli iPod, certo».

Poi mi racconta di una sua esperienza spirituale. Denzel possiede un lato profondame­nte religioso, a volte sembra un predicator­e, come suo padre. Mi racconta di quando ha parlato in una lingua straniera, circa trent’anni fa: «Ero in chiesa, alla fine del servizio ti chiedono se vuoi andare nella sala della preghiera e iniziano a raccontare di quando si parla in una lingua straniera, e poi mi ricordo solo che mi sono lasciato andare. Pensavo soltanto: ok, facciamolo e vediamo che cosa succede. Per cui sì, mi sono messo a parlare in una lingua straniera». Si è espresso con le parole di un’altra lingua? «Sì, una lingua straniera. Poi ho chiamato mia madre. Sudavo, ero tutto eccitato, le ho detto che cosa era accaduto, e lei mi ha risposto: “Oh certo, esatto”. Così ho continuato: mi sono sentito le guance piene, e lei mi ha spiegato: “È stata una specie di purificazi­one. Ti sei depurato dagli spiriti cattivi che hanno abbandonat­o il tuo corpo”. Non direi che avesse un tono indifferen­te, era una cosa seria, ma era riuscita a spiegarmi quello che mi era accaduto con la massima calma, sembrava lo avesse già vissuto. Riusciva a descriverl­o senza averlo visto. Ci allontania­mo dalle cose naturali quando ci toccano. Pensiamo che siano soprannatu­rali, ma dobbiamo essere aperti. Non che io sia un esperto, ci sono tantissime cose che non so». Era pronto per quell’esperienza? «Era lei a essere pronta per me. È stata un po’ sconvolgen­te. Io pensavo: un momento, non sono pronto a impegnarmi così. Ho pensato: ma allora non posso andare in discoteca? Non posso bere vino? La risposta era no». Quest’esperienza l’ha cambiata? «Mi ha dimostrato concretame­nte che lo

Spirito Santo esiste ed è reale. Non c’è dubbio. Sono tornato in quella chiesa e mi sono chiesto: hanno fatto uscire un po’ di fumo nella stanza e magari mi ha fatto sentire strano? Non lo so. Mi ricordo che altri nello stesso locale non hanno vissuto la mia stessa esperienza, e per me è stata reale». Sua madre, nel negozio da parrucchie­ra, ha provato qualcosa di simile quando uno dei clienti ha scritto in modo automatico quale sarebbe stato il futuro di Washington: «Qualcuno ha fatto una profezia, ha detto che sarei diventato un predicator­e. Che avrei predicato a milioni di persone». Be’, più o meno è quello che fa. «Più o meno, sì». Suona il telefono e scherza: «Probabilme­nte è mia madre... La profezia diceva anche che avrei viaggiato per tutto il mondo e che con il mio lavoro avrei parlato a milioni di persone. In questo momento della mia vita non ho paura a raccontarl­o. Disse che avrei avuto milioni di seguaci. Forse voleva dire migliaia e ha aggiunto qualche zero di troppo. Forse ha detto che avrei predicato solo a dieci persone (ride). Io cerco di non utilizzare la parola predicare. Sembra che ne sappia più di te. Mi limito a condivider­e la mia esperienza».

Predicator­e o no, è una specie di mentore per Ashton Sanders, l’attore che ha avuto un ruolo da protagonis­ta in Moonlight, miglior film agli Oscar dello scorso anno. Washington adesso sta lavorando con Sanders in The Equalizer 2. «Non so se utilizzere­i la parola “mentore”, ma lui mi piace e ha molto talento. È un bravo ragazzo e io ci sono già passato. Mi racconta come stanno cambiando le cose. Stanno cambiando i suoi amici. Io ci sono già passato». Intende dire che deve rivedere il suo gruppo di amici per liberarsi dei profittato­ri? «No. Con chi ne potrebbe parlare? Chi ha fatto il suo stesso percorso? Ovviamente non gli dico che cosa deve fare, ma posso raccontarg­li la mia esperienza». Da qualche parte, gli spiego, ho letto che non è amico di nessun attore bianco. Mi guarda stranito. «Non è quello che ho detto. Potrei aver spiegato che tra i miei amici non ci sono solo attori, e magari hanno rigirato la frase». Si vocifera che lo scorso anno gli Oscar siano stati neri perché l’anno prima erano stati troppo bianchi. «Che cosa intende con “Oscar neri”? Chi è che lo dice?». Immagino che nel giro si dica che nel 2017 ci sono state più nomination nere per riequilibr­are l’anno precedente, quando non ce n’era stata nessuna. Mi guarda come se fossi pazza, poi fa spallucce e dice: «Vediamo come va a finire ... Io non c’entro nulla. Ho fatto quello che dovevo». I premi le interessan­o? «Tutti ci tengono. Così, il mondo del cinema ha la possibilit­à di rendere omaggio a chi ha ottenuto dei risultati. Quando ero ragazzo, dopo la cerimonia andavano tutti alla festa di Swifty Lazar (agente storico, scomparso nel 1993, ndr) da Spago. C’era un parcheggio da cui si vedeva Spago, io guardavo gli attori – Warren Beatty e altri – entrare e mi dicevo: un giorno anche io sarò lì. Non mi interessav­a tanto conquistar­e il premio, ma non ero invitato alla festa e volevo andarci». Ride. È sempre stato motivato? «Sì, ma sai che ti puoi annoiare e qualche volta devi ricaricart­i o ricomincia­re da capo. Riprendere il teatro mi ha risvegliat­o. Quando sono tornato a Broadway (Giulio Cesare nel 2005 ha rilanciato la sua carriera, ndr) ho pensato: adesso sì che me lo ricordo».

Al termine, prima che scada il nostro tempo, Washington mi spiega la sua posizione sulla presidenza americana. «Ne ha parlato un pastore, mi sembra si chiami A.R. Bernard, e si riferisca a Daniele, capitolo 10. Dice che Dio insedia i re per un determinat­o periodo di tempo e per un motivo, e noi non sempre siamo a conoscenza di quel motivo: è quello che sta accadendo ora. C’è una ragione e io dico che dovremmo almeno essere più uniti. Un motivo in più per lavorare tutti insieme». Ride. E prende un ultimo orsetto di gomma prima di andarsene.

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 ??  ?? VACANZE ITALIANE Denzel a Portofino con la moglie Pauletta Pearson, 67 anni, e i figli. I due attori sono genitori di: John David, 33; Katia, 30; Malcolm e Olivia, 26.
VACANZE ITALIANE Denzel a Portofino con la moglie Pauletta Pearson, 67 anni, e i figli. I due attori sono genitori di: John David, 33; Katia, 30; Malcolm e Olivia, 26.
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