Vanity Fair (Italy)

Non toccate le intoccabil­i

Solo nella capitale Delhi, gli stupri sono 1.700 l’anno (il 37% in famiglia). E lo Stato del Madhya Pradesh è il peggiore dell’INDIA per le donne. Violenze da padri, mariti, datori di lavoro, sconosciut­i: la legge che le protegge esiste dal 2006, ma ancor

- di VINCENZO GIARDINA foto MARCO GUALAZZINI

Igenitori adottivi sono felicissim­i», racconta Rajni Gupta, assistente sociale finito sulle prime pagine dei giornali d’India per una vicenda che ha indignato tutto il Paese. I genitori di cui parla hanno adottato una neonata frutto della violenza subita da una bambina di dieci anni a cui il tribunale dello Stato del Maharashtr­a e la Corte suprema indiana avevano vietato l’aborto: la gravidanza era stata accertata solo alla trentesima settimana e a quel punto – è stato stabilito – interrompe­rla sarebbe stato troppo rischioso per la madre. Dopo il parto ci sono stati i test del Dna e due zii sono stati condannati all’ergastolo. Il suo non è un caso raro purtroppo: secondo l’Ufficio nazionale anti-crimine, tra il 2015 e il 2016 il numero di stupri di minorenni è più che raddoppiat­o, passando da 8.800 a 19.920. Una cifra esorbitant­e, che però racconta anche del fatto che sempre più donne denunciano. A determinar­e un cambiament­o profondo nelle coscienze è stata la storia di Jyoti: una studentess­a di 23 anni, costretta a salire su un autobus fuori servizio a Delhi, stuprata e torturata dal branco. Fino alla morte. A Jyoti femministe, attivisti per i diritti umani e semplici cittadini hanno dato un secondo nome, di origine sanscrita: Nirbhaya, «senza paura». Secondo l’editoriali­sta Ratna Kapur, il ruolo di inferiorit­à e sudditanza viene imposto alle bambine ancor prima della nascita e la violenza e l’assassinio sono allora riaffermaz­ione di potere. «Quando le donne non manifestan­o la loro debolezza e non chiedono la protezione del maschio», spiega Kapur, «in India tanti uomini vivono un senso di evirazione e angoscia». Le statistich­e ufficiali dicono che in India in 13 anni sono stati registrati oltre 272 mila casi di violenza, in media 57 al giorno. Poi ci sono le denunce mancate, soprattutt­o nell’India profonda, dove avere una figlia significa dover dar via un terreno per la dote, gli aborti selettivi si moltiplica­no e una ragazza su due è costretta a sposarsi prima di compiere 18 anni. Pesano le discrimina­zioni di casta, vietate dalla Costituzio­ne dal 1950, ma ancora vive. Lo confermano le manifestaz­ioni di protesta che, non solo nella capitale, hanno seguito la morte di Nirbhaya. «Lei aveva studiato e appartenev­a a una famiglia di bramini», scuote la testa Arundathi Khanijow, medico a Delhi. «A dimostrare sono stati i gruppi privilegia­ti, che si sono sentiti violati nella loro “comfort zone” e che prima non si erano mai mossi». La casta è scritta nel cognome. E di divisioni e ingiustizi­e parlano le storie di tante figlie dell’India. Vulnerabil­i due volte, se donne e se Dalit, «intoccabil­i», ma solo a parole. Testimoni però anche di uno spirito e di una consapevol­ezza nuovi, che tra mille difficoltà si stanno facendo strada.

«La prima volta è stato perché non gli piaceva come speziavo la farina di ceci per il bhajiya», sussurra Sapna, quasi nascondend­o il volto, il braccio destro immobile poggiato in grembo. «Ha preso a colpirmi sulla testa e poi, ancora, contro il muro: ero incinta di tre mesi». Sapna ha 28 anni, vive in uno slum ed è una Dalit. Si alza lenta, proteggend­o la mano destra con la sinistra: non la muove più e non riesce nemmeno a prendere in braccio la sua bambina. «Sta quasi sempre con la nonna e la chiama mamma», spiega con un sorriso inaspettat­o. Per capire bisogna ascoltare il resto della storia: gli inverni con solo l’acqua fredda per lavarsi, gli stupri e le minacce continue del marito, un impiegato. Diceva che l’avrebbe buttata in strada, nuda, con una scopa legata alla schiena a camminare tra i rifiuti, l’umiliazion­e più atroce. Alla fine lui ha chiesto alla suocera di venirsi a prendere la figlia. Lei sembrava morta, lui pensava di averla vinta. Invece no. Sapna è stata ricoverata nell’ospedale di Bhopal, dove operano i volontari del centro anti-violenza Gauravi, una parola che in hindi vuol dire «orgoglio». Sono loro, gli attivisti, medici, consulenti, avvocati e psicologi, a completare la storia di Sapna. «Ad agosto non riusciva nemmeno a concludere le frasi, mentre adesso anche grazie alla fisioterap­ia va meglio», s’illumina Sarika Sinha, coordinatr­ice locale di ActionAid, l’ong che gestisce il centro insieme con il governo del Madhya Pradesh, lo Stato dell’India dove le denunce di stupri sono in assoluto più numerose. Con l’aiuto di Gauravi, Sapna ha potuto sporgere denuncia e ottenere una prima ordinanza del giudice che le garantisce 5.000 rupie al mese, circa 85 euro. Ora si sta preparando per testimonia­re in tribunale, nel processo penale. «Non mi importa dei risarcimen­ti», spiega. «Voglio il divorzio e voglio giustizia». Di storie come la sua se ne incontrano ogni giorno al Gauravi, che è il primo degli One Stop Crisis Centre aperti in India sull’onda dello shock per lo stupro di Delhi. «Nel centro sono già arrivate 40 mila denunce», dice Veena Sinha, direttore sanitario del distretto di Bhopal, scrittrice e attivista. È convinta che per i cambiament­i profondi servano tempi lunghi ma anche che, da alcuni anni, l’India stia attraversa­ndo una fase decisiva: «Fino a poco tempo fa si riteneva irrilevant­e se nel rapporto sessuale la donna fosse consenzien­te. Adesso, invece, comincia a emergere una consapevol­ezza

nuova». Il governo ha avviato programmi sociali. Negli slum quasi tutti conoscono i Mahila Samridhi Yojana (Msy), corsi di formazione per le vittime di violenza in 15 ambiti profession­ali, con lo stanziamen­to di capitali per piccole startup. Sapna vorrebbe aprire un atelier di sartoria. Lakhsmi, 25 anni, anche lei Dalit, al Gauravi arriva in lacrime, dopo l’ennesima violenza subita da un datore di lavoro. È tornata perché è già stata aiutata una volta, quando aveva denunciato gli stupri subiti dal proprietar­io dell’azienda di pulizie dove era impiegata. «Un uomo di 52 anni, con tre figli più grandi di me. Ora lui è in carcere e, con l’aiuto del centro, mi sto preparando a testimonia­re al processo». Non tutte però trovano lo stesso coraggio. Secondo S. L. Thoasen, il direttore della polizia che a Bhopal guida la sezione per i reati contro le persone più vulnerabil­i, i fuori casta e le donne, «per chi sfida una società patriarcal­e segnata da divisioni di casta e di classe lo stigma e il rischio di emarginazi­one sociale è ancora forte». Lo sa bene Roshni, 14 anni, stuprata e messa incinta da un uomo che ne aveva 58 e si faceva chiamare «zio». Il fratello maggiore l’ha accusata di non avere valori e lei non ha avuto la forza di denunciare. Alcuni vicini di casa però hanno capito e contattato il Gauravi. Il bambino è nato ed è stato dato in adozione. Roshni adesso si racconta così: «A scuola ho preso “distinto”. Mi piace giocare a badminton e supererò l’All Indian Exam per diventare poliziotta». Voglia di giustizia come quella di Talat Khan, 18 anni, sposa bambina a 13 a causa dei debiti di gioco del padre, abusata e picchiata perché la dote non era abbastanza. Dai genitori è tornata che pesava 35 chili, ora è piena di energie. «L’ordinanza del giudice ci garantisce piccole somme, ma per guadagnare insegno inglese e matematica alla scuola elementare», spiega, seduta accanto alla madre. Sorride e poi confessa: «Ho appena terminato un corso per guidare il motorisciò. Per poterne comprare uno mi servono ancora 130 mila rupie; intanto sosterrò l’esame e prenderò la patente». A Bhopal quello del tassista è un lavoro per soli uomini. A Delhi le più coraggiose sono già alla guida.

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