LA VALLEY IN ERBA
Fino a poco tempo fa, i signori della tecnologia erano il simbolo del successo. Oggi, come insegna il processo al fondatore di Facebook, sono diventati i «cattivi del mondo». A San Francisco si discute di come superare il modello degli OLIGOPOLI DIGITALI, cercando nuove sfide. A cominciare dalla cannabis
La promessa di eterno progresso della Silicon Valley ha i capelli ricci e gli occhi grandi di una trentacinquenne afroamericana che ama la marijuana. Il suo nome è Mennlay Golokeh Aggrey. Nel 2008 ha creato assieme a un gruppo di donne californiane Om Edibles, un collettivo che produce medicinali naturali a base di cannabis. Il successo dell’impresa ha spinto l’attrice Whoopi Goldberg ad assumerla come consulente per la sua linea di prodotti contro i dolori mestruali, e diverse case di moda e bellezza a corteggiarla, per ora senza successo. Nei giorni in cui va in onda in diretta mondiale il «processo» al fondatore di Facebook – accusato di aver condiviso i dati di milioni di iscritti con l’agenzia di propaganda politica ultraconservatrice Cambridge Analytica – Mennlay gira l’America per spiegare alle persone le proprietà della marijuana, la cui vendita è legale in California dal primo gennaio 2018. Per lei, cresciuta in una fattoria di Harrisburg in Pennsylvania, il valore della liberalizzazione è innanzitutto politico: «Erba e afroamericano è un’equazione che in America ha sempre significato crimine», racconta al tavolo di un caffè del quartiere Mission di San Francisco senza connessione wi-fi, una forma di ribellione al predominio digitale diventato comune nella città dominata dai techies. «Ho lavorato di nascosto per 13 anni, costretta a cambiare casa e a ricominciare ogni volta che un vicino scopriva di cosa mi occupavo: il fatto che la legge finalmente riconosca che non sbagliavo è un riscatto pubblico e personale». Mennlay fa parte di una generazione di donne che vedono nel nascente settore della cannabis una nuova fase della spregiudicata corsa all’oro californiana, la prosecuzione di una storia di innovazione e audacia che ha fatto della striscia di terra della Bay Area il laboratorio principale del progresso dell’Occidente. Eppure, grande paradosso della modernità, a spaventare i nuovi pionieri della cannabis c’è proprio l’influenza negativa della Silicon Valley: «C’è una stretta correlazione tra marijuana e tecnologia», spiega, «perché abbiamo bisogno di dati e di strumenti, ma allo stesso tempo c’è il timore enorme che le tech money, i soldi provenienti da quel mondo, possano contaminare tutto». Una paura che nasce da una nuova consapevolezza, negata per anni dai ragazzini bianchi in infradito che hanno conquistato il mercato in nome della disruption, ovvero che la fede assoluta nella tecnologia sia un pericolo per la democrazia. Le udienze al Congresso di Mark Zuckerberg pallido e in giacca e cravatta rappresentano il primo processo a un sistema che pensava di essere impunito. «La Silicon Valley ha respinto negli anni qualsiasi forma di scetticismo», ha scritto Franklin Foer sull’Atlantic, «costruendosi intorno una bolla che l’ha ampiamente protetta da domande difficili sui suoi grandi progetti di ripensamento dell’umanità e del capitalismo, e sulla demolizione della privacy e dei media». Se è vero che sono in molti – Unione Europea compresa – a denunciare da anni i rischi che si celano dietro gli oligopoli digitali (le famose Big Five dell’high tech Amazon, Facebook, Google, Microsoft e Apple), il vero punto di svolta sembrano essere state le elezioni americane del 2016, quando il sogno della connessione universale portato a compimento da Mark Zuckerberg ha inglobato spie russe, agenzie di propaganda e gruppi di ultradestra. Le biografie celebrative dei ventenni diventati milionari grazie a un’app così come le storie dei tavoli da pingpong nelle aziende della Silicon Valley hanno lasciato spazio ad accuse e critiche feroci. «Nel 2008 erano i banchieri di Wall Street, nel 2018 sono i lavoratori del mondo della tecnologia a essere considerati i cattivi del mondo», ha scritto Erin Griffith sull’edizione americana di Wired. Se alla fine del decennio scorso sembrava che fossero loro – ragazzini introversi, mal vestiti, molto competenti, e cresciuti nel sogno della libertà di Internet – i protagonisti di una «diversa» imprenditoria capace di stimolare conoscenza e «primavere arabe», dieci anni dopo sono diventati i nuovi carnefici, che non affascinano ma spaventano i nuovi innovatori come Mennlay Golokeh Aggrey. La narrativa di un luogo che ha prodotto e continua a produrre idee e visione, convinto sempre – come sostiene il mitico libro di Fred Turner From Counterculture to Cyberculture – dell’esistenza di una continuità tra gli hippie e i tecnocrati, ha finito con il coincidere con quella dei destini dei colossi del web. «La Silicon Valley non è solo Facebook e Google», ribatte Kevin Kelly, padre della cultura digitale e fondatore di Wired. «Ci sono migliaia di start-up nascoste tra Mountain View e Menlo Park che lavorano al futuro». Non solo cannabis, ma anche realtà virtuale, biotecnologie, blockchain: settori che possono ancora riscattare il mondo della tecnologia. «Facebook è più popolata di qualsiasi altra nazione del mondo: come si fa a gestire una comunità di due miliardi di persone?», insiste Kelly, tra gli ospiti dei Social Lab organizzati da Cartier a San Francisco. «Se le piattaforme diventano governi, è naturale che debbano esserci delle regole, solo che è molto complicato». A essere semplice, secondo Kelly, è il corso naturale della
«SE LE PIATTAFORME DIVENTANO GOVERNI, È NATURALE CHE CI SIANO DELLE REGOLE»
tecnologia che ribalta all’improvviso quello che sembra immutabile: «Tutti credono adesso che le grandi compagnie tecnologiche siano infallibili, ma in realtà tutte le aziende sono vulnerabili grazie alla natura stessa della Silicon Valley: l’energia vitale del progresso non ci mette tanto a muoversi da una piattaforma all’altra. È successo molte volte e succederà ancora». Il punto è provare a farlo con valori e principi diversi; realizzare che la soluzione ai bachi e alle distorsioni della tecnologia non è una tecnologia più avanzata ma regole e limiti imposti fuori dai confini della Silicon Valley. «Da innovatori», spiega Priv Bradoo, imprenditrice celebrata anche da Obama per il suo impegno nel settore dei rifiuti tecnologici, «abbiamo il dovere di chiederci oggi quale sia il costo della nostra innovazione, che responsabilità abbiamo nei confronti delle persone. Io non credo nella speranza, credo nel dovere di domandarti cosa stai facendo, e se quello che fai rispetta ciò in cui credi». È questo il principio di numerose start-up e istituzioni che provano a ricostruire il mondo della tecnologia. Il Center for Humane Technology raccoglie ceo e imprenditori della Silicon Valley delusi dalle logiche e dai risultati (lo slogan del centro è «la tecnologia sta dirottando la nostra società») e che, guidati da Tristan Harris, ex design ethicist di Google, stanno ridisegnando i confini di onnipotenza della Valle. «Dobbiamo ripristinare la scelta», ha detto Harris in una famosa Ted Talk diventata virale su Internet. «Immaginate un social network professionale che, invece di misurare il successo in termini di connessioni create o messaggi inviati, misurasse il successo in termini di offerte di lavoro ottenute che le persone sono felici di ricevere. E sottraesse il tempo speso sul sito. O immaginate servizi di appuntamenti, come Tinder e simili, dove invece di misurare il numero di swipe a destra e a sinistra, che è il modo in cui si misura il successo oggi, misurasse le connessioni romantiche e profonde create». Nascoste dietro ai monopoli che dominano la valle, le persone al lavoro ci sono già. Bisogna solo aspettare che la tecnologia, finalmente regolata, faccia il suo corso.
«DOBBIAMO RIPRISTINARE LA SCELTA. SERVONO NUOVI VALORI ALLA BASE DELL’INNOVAZIONE»