Vanity Fair (Italy)

FORSE NAPOLI DOMANI VINCERË

- di MARCO D’AMORE

La mano destra porta l’immagine della Vergine Maria alla bocca per suggellare con un casto bacio il patto, mentre la sinistra, nascosta nei pantaloni, stringe il corno portafortu­na attaccato alle chiavi di casa. Al cimitero delle Fontanelle, quartiere Sanità, nel silenzio religioso che il luogo impone, si chiede protezione “alle capuzzelle”, crani di anime abbandonat­e di cui ogni napoletano ha cura. Nell’antro oscuro della Sibilla, a Cuma, si interroga l’oracolo col segno della croce, mentre nella Basilica di Santa Chiara si trema aspettando che si sciolga il sangue del giovane Gennaro, Martire e Santo protettore a cui chiedere ’o miracolo! E si fanno le corna, che non si può mai sapere. Noi stiamo sempre là in mezzo, come il mare che ci ha battezzato sta in mezzo alle terre: Mediterran­eus, tra la vita e la morte, il sacro e il profano, la verità e il sogno. È per questo che la voce che corre da mesi nei vicoli non capiamo se sia reale o frutto della fantasia. Non ci vogliamo credere ma, a volte, siamo proprio sicuri di sentirla, di riuscire a emetterla noi stessi, di poterla toccare con le mani, appuntarla in petto come fosse uno scud… un gagliardet­to! Altre volte invece, ci sembra canto lontano, eco incantatri­ce, voce di sirena… Parthènope! Emerge dalle acque, è lì, guardatela, bella e tentatrice, adagiata sul lido di Megaride, dove oggi sorge Castel dell’Ovo, tutta vestita d’azzurro, ci fa segno di raggiunger­la, di seguirla, mentre intona le melodie più dolci: «…oooh… abbiamo un sogno nel cuore, Napoli torna campione… oooh…». Noi, disperati Ulisse, ci aggrappiam­o alla Storia sventurata che ci vede sempre vinti e poco vincitori, ci teniamo stretti alle sconfitte perpetue per resisterle, ma la nostra opposizion­e dura poco. Le forze vengono meno e ci abbandonia­mo al richiamo, ci lasciamo andare alla deriva dei sogni, ci facciamo rapire. Quella voce va dritta al cuore, fa le farfalle nello stomaco e attacca le gambe, facendoci saltare come presi da una tarantella perpetua. Perdersi è meraviglio­so! D’improvviso davanti ai nostri occhi si spalanca il sipario del Teatro delle Meraviglie. Il mare si fa immenso prato verde, il cielo gremito di gente, uno spalto enorme. Da lontano scorgiamo qualcuno correre verso di noi, è il bambino d’oro di Lanús, El pibe de oro. Diego, coi riccioli mossi dal vento, alza le braccia in segno di vittoria e ha un sorriso grande sul volto, come quando scherzava con le mani allo Stadio Azteca… «Oh mamma, mamma, mamma sai perché mi batte il corazón? Ho visto Maradona! Ho visto Maradona! Uè mammà innamorato son!». Ora cantiamo tutti insieme. Diego calcia il pallone in aria. Fa un po’ freddo e ci abbracciam­o. Io guardo l’uomo che mi stringe, è papà. Mi dice che sono trent’anni, quasi trent’anni. Io gli chiedo cosa? E lui mi dice che non si dice, quella parola non si dice. E poi mi fa segno di guardare. Nel campo gigantesco, lo scugnizzo di Fuorigrott­a, Lorenzinho, è Davide e Golia insieme. Bambino e gigante. Lazzaro e generale. Lui e i suoi compagni giocano per noi contro tutti gli altri e ce lo fa capire perché quando si porta la mano al petto e si batte il cuore, si sentono vibrare mille tamburi. Sono tutti i nostri cuori all’unisono col suo. La nostra panchina è avvolta nella nebbia dei sigari. Un anziano signore indossa una tuta e ha in bocca un mozzicone spento di sigaretta. Quando parla lo fa a voce bassa e tutti in quel momento pendono dalle sue labbra. Il mister ha un forte accento toscano ma sussurra una frase in inglese del grande Bukowski: «Find what you love and let it kill you». Si sente un rumore fortissimo, come di reattore nucleare. Una palla viaggia alla velocità della luce. Mamma Africa è generosa e benevola. Fa alzare in piedi il Senegal pregandolo di usare la testa. Kalidou così fa. 0-1. Quello che succede mi fa paura e mi piace. I sismografi registrano sussulti, i mari si alzano, cessano le guerre nel mondo, Pantani scatta sul Galibier, Simoncelli fa il giro più veloce, Muhammad Ali si riprende la corona, Ayrton vince un altro mondiale. Mi sento così felice che mi risveglio col sorriso e piango. Fuori è una bella giornata, fa caldo e mi va di camminare. In strada hanno tutti un’aria strana, ci guardiamo e annuiamo, come se sapessimo tutti la stessa cosa. Mi sembra abbiano fatto tutti il mio stesso sogno. Il bar sotto casa fa un caffè che è la fine del mondo, mentre lo gusto guardo distrattam­ente la tv. Un dato attira la mia attenzione. Un punto. Un solo punto. Non è vero, ma ci credo. Perché credo ai sogni.

—Mi sento così felice che mi risveglio col sorriso e piango. In strada c’è un’aria strana, sembra che abbiamo fatto tutti lo stesso sogno

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