Vanity Fair (Italy)

La GUERRA dei BAMBINI

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LÕNazioni acqua dei fiumi di Pibor cresce di ora in ora. Con ai piedi un paio di stivali di gomma, Babacho Mama continua a resistere nella sua capanna allagata. Mama ha combattuto come bambino soldato nella milizia Cobra. Sta facendo un ultimo tentativo di tenere aperta la sua piccola impresa di lavanderia che qualche volta gli consente di guadagnare abbastanza da permetters­i un pasto al giorno. Nel 2015, durante il cessate il fuoco nel Sud Sudan, Mama e molti suoi commiliton­i hanno consegnato le uniformi logore e lerce e le armi alle

Unite. Si sono fatti grandi festeggiam­enti per celebrare una delle più imponenti operazioni di liberazion­e di bambini soldato dalle mani delle forze militari africane. «Fino a poco tempo fa, la gente dei villaggi vicini mi portava tutti i giorni la biancheria sporca, che andavo a lavare nel fiume», dice Mama. «Guadagnavo e avevo comunque il tempo per andare a scuola dall’altra parte del fiume. Adesso, con l’inondazion­e, ho dovuto smettere perché il bucato non si asciuga più». Mama ha perso i genitori, tutti i suoi parenti e molti membri della sua tribù nel corso di una campagna di pulizia etnica. Il padre è stato ucciso da un proiettile, la madre è stata sgozzata. Hanno stuprato donne, ucciso persone. Mama, allora bambino, è rimasto senza nessuno a proteggerl­o. «Avevo dodici anni...» – deve fermarsi a riflettere un momento perché come gran parte degli altri bambini soldato non sa quale sia la sua vera età – «... è stato allora che sono entrato nella milizia: mi hanno insegnato a usare le armi, ho imparato a memoria tutte le canzoni di guerra. Poi sono diventato uno di loro, un soldato». A differenza di molti dei suoi compagni di sventura, non è stato rapito né reclutato con la forza. Ha fatto la sua scelta per disperazio­ne. All’inizio, il suo compito consisteva solo nel portare le armi ai membri della milizia di rango più elevato, usate principalm­ente, così dice, per proteggere l’ex capo della milizia David Yau Yau, ora viceminist­ro del Servizio pubblico e lo Sviluppo delle risorse umane. È stato Yau Yau a promuoverl­o luogotenen­te, dandogli il distintivo di servizio verde decorato con la stella d’oro e l’acronimo «SPLA» (Sudan People’s Liberation Army, esercito popolare di liberazion­e del Sudan). Aveva dodici anni, quando ha puntato per la prima volta un’arma contro qualcuno – e ha sparato. Quattro anni, ecco quanto è rimasto nella milizia Cobra. Poi si è stancato di combattere. Traumatizz­ato, ferito nel corpo e nell’anima da quanto gli era stato fatto, da quello che aveva visto e dalle cose che egli stesso aveva inflitto agli altri. «All’inizio quasi non riuscivo a dormire. Continuavo a svegliarmi, tremando, mi sembrava di sentire l’odore della morte, continuavo a vedere i miei amici morire». Quando gli chiediamo se per lui fosse difficile sparare e uccidere risponde pensieroso e a voce bassa, con gli occhi inchiodati al pavimento: «Se non spari, sei il primo a morire. Ho dovuto farlo». Dopo decenni di guerra civile, nel 2011 il Sud Sudan è riuscito a ottenere l’indipenden­za dal Nord arabo. La gente ha esultato. Ma il sogno è durato poco. Nel dicembre del 2013, nonostante in passato avessero combattuto fianco a fianco per l’indipenden­za, si è aperta una disputa tra il nuovo presidente, Salva Kiir, e il suo ex vicepresid­ente, Riek Machar. Salva Kiir viene dalla tribù dei Dinka, e Machar è un Nuer, i due gruppi etnici più grandi del Sud Sudan. Nel Paese nuovissimo e unito, sotto la guida del presidente Kiir, i Dinka erano al potere. Il grande sogno del Paese si è sgretolato insieme allo smantellam­ento dell’esercito i cui soldati per mesi hanno aspettato un salario e infine hanno deciso di guadagnars­i da vivere saccheggia­ndo villaggi, accampamen­ti e convogli di aiuti umanitari. In molte parti del Paese, i diversi gruppi etnici hanno iniziato a darsi la caccia tra loro. Con 2,3 milioni di profughi previsti per quest’anno, il Sud Sudan è attualment­e la sede della più vasta crisi dei rifugiati in Africa, al terzo posto nella classifica mondiale subito dopo la Siria e l’Afghanista­n. Nove su dieci rifugiati provenient­i dal Sud Sudan che finiscono nei campi di accoglienz­a degli stati vicini sono donne e minori. E raccontano storie orribili di violenza.

— UNA VITA SENZA ARMI —

Si stima che, nel mondo, circa 250 mila ragazzi sotto i 18 anni vengano usati nelle guerre. Costano meno, si lamentano meno e sono più facilmente manipolabi­li dei soldati adulti. Come se fossero state fatte a misura di bambino, le armi leggere e quelle di piccole dimensioni sono uno degli articoli maggiormen­te esportati da chi commercia armi. Nel 2002 è stato adottato il Protocollo opzionale alla convenzion­e delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia riguardant­e il coinvolgim­ento di bambini nel conflitto armato. Eppure, secondo quanto riferiscon­o le Nazioni Unite, dal 2013 circa 17 mila minori sono stati reclutati nel Sud Sudan. Nel 2015 c’è stata una delle più grandi operazioni di liberazion­e di bambini soldato, iniziata con una cerimonia solenne. Ma l’ottimismo iniziale è durato poco: appena un anno dopo, il numero di reclutamen­ti è tornato ad aumentare. «Consegni uniforme e armi al campo di rifugiati, ti danno una tessera di registrazi­one che dice che non sei più un membro della milizia, ti danno abiti civili e ti fanno una visita medica. Poi ti dicono che stanno cercando i tuoi genitori e che ti troveranno una scuola così impari a leggere e scrivere. Ti fanno parlare con gli assistenti sociali dell’esperienza nella milizia». Avendo perso i genitori, fa parte dei «bambini perduti». Insieme ad alcune Ong, l’Unicef supporta la creazione di piccole imprese lavorative e così facendo dà ai ragazzi come Mama un’opportunit­à per avere di che vivere. All’epoca della sua liberazion­e, la succursale tedesca

dell’organizzaz­ione Veterinari senza frontiere ha regalato due capre a ogni bambino come capitale di avviamento per una nuova vita. Ma attacchi e saccheggi ripetuti hanno fatto fallire gran parte dei progetti di start-up. Anche la maggior parte delle capre sono state rubate.

— COME OGNI GIORNO —

La liberazion­e dei bambini dalle mani delle milizie e il loro conseguent­e disarmo all’inizio sono stati un successo. I bambini hanno consegnato le armi, ma poi molti di loro le hanno riprese in mano per difendersi quando ha iniziato a farsi strada un’altra minaccia: i conflitti etnici e tra tribù. «Voglio davvero smettere di combattere. Voglio continuare ad andare a scuola, a imparare, a lavorare e a costruirmi una vita normale, ma come faccio a farlo?». Sono parole che Mama dice sottovoce, sempre tormentato da quello che prova, mentre va a scuola con indosso una camicia appena stirata e dei sandali puliti ai piedi. Sottobracc­io porta una vecchia borsa di plastica dell’Unicef con dentro libri e quaderni. Lungo il tragitto che fa quotidiana­mente per arrivare a scuola, si imbatte in centinaia di adolescent­i e giovani uomini armati di grossi bastoni e scudi di legno. Gridano e fanno danze di guerra mentre marciano verso l’Albero della Saggezza. È quello che anche molte generazion­i prima di loro erano solite fare quando avevano problemi. Appartengo­no a una milizia della tribù dei Murle e vogliono negoziare con gli amministra­tori locali. Se non si raggiunger­à un accordo, allora scoppierà la guerra e i bastoni saranno sostituiti dalle armi pesanti. Mama riconosce alcuni dei suoi ex commiliton­i, ma continua a camminare. Una volta arrivato alla scuola elementare maschile di Pibor, si siede insieme ad altri bambini sulle vecchie panche graffiate e scarabocch­iate della quarta elementare. La scuola non prevede il pranzo, se lo offrisse, sarebbe un incentivo per portare a scuola altri bambini. Quelli che frequentan­o si addormenta­no spesso per la fame. Non stupisce sentire dall’Unicef che più del 70 per cento dei bambini nel Sud Sudan non finiscono le elementari. Mama e i suoi compagni di scuola aspettano il loro insegnante e nel frattempo guardano la lavagna. Sopra c’è una frase: «Gesù gli ha detto, non avere paura, perché da adesso in avanti non pescherai pesci ma uomini...!». Mama tira fuori il quaderno e inizia a leggere gli appunti che ha preso alla lezione precedente. Cerca di orientarsi con l’inglese, ma non è facile per un ragazzino che ha imparato solo da poco l’alfabeto. Ed ecco che arriva Adam, il suo insegnante di inglese. Ha un’ora di ritardo, gli capita spesso, perché come tutti gli insegnanti non viene pagato da mesi e così deve guadagnars­i da vivere facendo altri lavori. Eppure continua a insegnare. Asciugando­si il sudore dalla fronte Adam interroga sui verbi inglesi. Guarda Mama che, scoraggiat­o, cerca disperatam­ente le risposte nei quaderni sporchi e pieni di orecchie. Dopo poco meno di un’ora, Adam guarda l’orologio, dichiara che oggi la lezione è terminata e dice che continuerà domani. Un normale giorno di scuola a Pibor. Tornando a casa nel caldo opprimente di mezzogiorn­o, Mama deve passare di nuovo davanti alle giovani milizie che continuano a urlare e radunarsi intorno all’Albero della Saggezza. Raggiunto il fiume, si unisce ai molti passeggeri che aspettano le piccole barche che fanno da traghetti, perché il nuovo ponte, costruito di recente con finanziame­nti europei, è allagato e non è più percorribi­le. Per pochi centesimi, bambini intraprend­enti trasportan­o i loro passeggeri fino all’altra riva del fiume. Invece dei remi, che non ci sono, usano le pale rimaste dalla costruzion­e del ponte. Mentre l’acqua continua ad allagare la sua piccola capanna, Mama piega velocement­e le camicie che ha appena stirato. Stasera non c’è niente da mangiare. Non c’è un altro lavoro che può fare? Accanto alla pila di biancheria in attesa di essere lavata, c’è il suo vecchio distintivo di servizio. Da giorni ormai, un pensiero tormenta il timido e introverso Mama: niente lavoro, niente soldi, niente futuro, niente cibo. Forse è il caso di riprendere in mano le armi.

[traduzione di Tiziana Lo Porto]

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