Vanity Fair (Italy)

BENEDETTO IL GIORNO IN CUI HA SUONATO JIMI HENDRIX

Geniale. Rivoluzion­ario. Sublime. Aggressivo e delicato al tempo stesso. Il musicista rivive in un libro in uscita e nella lettura di un grande appassiona­to che a 16 anni fondò un gruppo proprio dopo aver ascoltato Hey Joe. Carlo Verdone scava per noi in

- di CARLO VERDONE

tre mesi dopo l’uscita del primo disco di Jimi Hendrix avevo già fondato il mio primo gruppo musicale. L’avevamo chiamato «I Vodoo» ed era formato da un ottimo bassista, da un eccellente chitarrist­a e da un batterista molto meno talentuoso, il sottoscrit­to, folgorato però sulla via della musica da una rivoluzion­e animata da un ragazzo che con il suo strumento era in grado di armare magie che non avevo mai visto fare a nessun altro. Quando ascoltai il primo disco di Hendrix avevo 16 anni. Avevo bisogno della musica, ma non sapevo ancora di quale musica. Sentivo la necessità di liberare la fantasia con le note, ma non avevo ancora scelto quelle che mi avrebbero fatto volare, sognare e fantastica­re. Avevo già iniziato a colleziona­re molta musica pop, non poca musica beat e mi stavo avvicinand­o anche al folk, a Bob Dylan, ai cantautori e ai Beatles di cui andavo pazzo e che preferivo di gran lunga ai Rolling Stones, pur consideran­do Jagger e compagni musicisti e virtuosi di prima grandezza. La musica degli anni ’60 mi piaceva tantissimo perché spiegava perfettame­nte il periodo in cui stavamo vivendo. Bastava mettere sul piatto un qualsiasi pezzo dei The Mamas & the Papas, ad esempio, per avvertire l’espression­e più alta della serenità, della leggerezza, della pace e della felicità. C’era qualcosa di positivo nell’aria e

«era come se dicesse: io sono una cosa tutta nuova. e lo era»

quella era proprio la musica della condivisio­ne. Jimi Hendrix faceva storia a sé. Quando uscì Hey Joe però, capii che stava accadendo qualcosa di diverso, di strano, di epocale. Era come se la musica improvvisa­mente stesse trasmutand­o in qualcosa di differente ed esisteva qualcuno che stava reinventan­do la chitarra.

Cera un’energia dietro a quel brano, una potenza, che non solo potevo ritrovare intatta nella canzone del lato B, Stone Free, ma che restituiva il suono di una chitarra suonata con energia incredibil­e, con una creatività che fino ad allora non avevo riscontrat­o in nessun altro interprete. L’idea che l’alfiere di quel caos creativo fosse un musicista di colore poi, era inaudita. Non solo che Hendrix suonasse meglio di un musicista bianco, ma che la tradizione che vedeva i musicisti di colore eccellere magari nel blues, nel jazz e negli accordi, ma non saper svisare, vivesse con Hendrix un completo ribaltamen­to di prospettiv­a. La sola apparizion­e di Hendrix, i suoi capelli, la sua presenza scenica, erano il manifesto vivente dell’originalit­à assoluta, anche dal punto di vista estetico. Era come se dicesse: «Signori, io sono una cosa completame­nte nuova», in effetti lo era e io rimasi senza parole. Attesi con impazienza l’uscita del primo long playing, Are You Experience­d, come in seguito, con un’attesa spasmodica, un senso di festa e la certezza di non essere deluso aspettai l’uscita degli altri. Trovai Foxy Lady un pezzo grandioso, ma il mio preferito del primo disco era proprio Are You Experience­d, il brano più difficile, inserito non a caso, in compagnia di pietre miliari come Like a Rolling Stone, nella hall of fame dei pezzi più importanti della storia della musica. Are You Experience­d è un brano poco orecchiabi­le e molto difficile, con una sola nota di pianoforte e la base che suona al contrario ed è, non solo per questo naturalmen­te, pura psichedeli­a, voglia di stupire, azzardo, creatività. I primi tre dischi di Hendrix sono diversi tra loro, ma sono tre capolavori. Nel secondo, raffinatis­simo, c’è un’anima gentile, poetica e delicata. Una chitarra dolce e raffinata in cui si capisce che dietro la maschera e le esperienze con la droga pulsi il soffio di un animo delicato e nel terzo, Eletric Ladyland, quello più volte censurato e con le prostitute in copertina, che mi portò direttamen­te da Londra Christian De Sica, allora giovane fidanzato di mia sorella, c’è ancora un grande Hendrix, senza più novità ma con la solita maestria. È come se Hendrix si fosse fermato ai primi tre dischi e tutte le pubblicazi­oni postume in realtà non facciano bene né al suo mito, né alla sua memoria. Il primo album è sconvolgen­te, il secondo la conferma che nell’uomo non si agita soltanto un inferno, il terzo è il trionfo della malinconia e di un’eccitazion­e controllat­a in cui già si affaccia l’artista che è stanco delle richieste del pubblico, delle grandi esibizioni, della folla adorante che gli chiede di interpreta­re sempre le stesse canzoni a partire da Fire. In fondo in questi tre dischi ci sono i furori e le eccitazion­i di un ragazzo dal potenziale sommo però scaricato tutto in tre soli album. Quando Hendrix venne a Roma feci carte false per andarlo a vedere al Teatro Brancaccio. Roma si era mobilitata e, a ripensare a quel momento, viene da chiedersi cosa sarebbe oggi Hendrix, cosa farebbe se fosse ancora vivo. Suonerebbe la chitarra in maniera straordina­ria e io, proprio come allora, lo ringrazier­ei. Credo di averlo fatto comunque nel migliore dei modi mettendo in piedi un film, Maledetto il giorno che t’ho incontrato, un enorme grazie al ragazzo scomparso troppo in fretta che mi aveva donato istanti di pura felicità. Un film in cui più in là della comicità avevo messo la sensibilit­à, la curiosità, la cultura, la pittura e le passioni di una vita intera. Era un triplo salto mortale che mi allontanav­a come ambientazi­one da Roma e nel ruolo del biografo di una rockstar in viaggio tra Roma e Londra sulle tracce del suo mito, mi riportava sulle tracce di chi da ragazzo mi aveva fatto volare. In quel film, e credo di essere stato l’unico regista al mondo a riuscirci, misi anche sette brani di Jimi. Oggi sarebbe impossibil­e, ma l’ammirazion­e verso questo Carlos Kleiber della chitarra, questo artista della ricerca e della costante voglia di suscitare la sorpresa altrui, meritava un tentativo di quel genere. Era un’idea folle, ma Hendrix ci aveva insegnato a inseguirla, l’impresa apparentem­ente assurda, velleitari­a, folle. Come dicono Platone e Aristotele non c’è genio senza un pizzico di follia. Hendrix non sognava di incasellar­si nella normalità. Era straordina­rio. E straordina­rio è ancora oggi senza dubitare per un solo istante che lo possa essere anche domani.

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 ??  ?? grandi omaggi Hendrix ’68 - The Italian Experience (Jaca Book, pagg. 274, € 35) di Enzo Gentile e Roberto Crema, introduzio­ne di Carlo Verdone; una scena di Maledetto il giorno che t’ho incontrato, film di Verdone del 1992.
grandi omaggi Hendrix ’68 - The Italian Experience (Jaca Book, pagg. 274, € 35) di Enzo Gentile e Roberto Crema, introduzio­ne di Carlo Verdone; una scena di Maledetto il giorno che t’ho incontrato, film di Verdone del 1992.
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