Vanity Fair (Italy)

ANDREW BOLTON

Al Costume Institute del Metropolit­an Museum of Art di New York inaugura con il consueto Met Gala una super mostra su moda e arte religiosa. La mente è un uomo speciale, che ama intercetta­re le tendenze (e perdersi tra la folla)

- di SIMONA SIRI foto CHAD BATKA

All’inizio del documentar­io The First Monday in May, quello sull’allestimen­to della mostra China: Through the Looking Glass, ad Anna Wintour viene posta la domanda: «La moda è arte?». Secondo Andrew Bolton, curatore del Costume Institute del Metropolit­an Museum of Art di New York, e mente dietro a quella come ad altre mostre, è tempo di smettere di chiedercel­o. Basta far parlare i numeri. Nel 2011 Savage Beauty, dedicata ad Alexander McQueen, fu vista da 661 mila spettatori. Nel 2015 China: Through the Looking Glass batté il record con 670 mila visitatori. Quest’anno potrebbero essere anche di più: pensata come un dialogo tra moda e arte religiosa, Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imaginatio­n include circa 40 paramenti e accessori provenient­i dal Vaticano – alcuni dei quali mai esibiti prima – e appartenen­ti a 15 papati. Tra questi, la cappa di seta bianca ricamata con fili d’oro di papa Benedetto XV, il cappello a punta di papa Leone XIII, anelli e tiare risalenti al XVIII secolo saranno esposti accanto ad abiti di Coco Chanel, John Galliano, Balenciaga, Dolce&Gabbana, Yves Saint Laurent, Elsa Schiaparel­li e Donatella Versace. Come sempre, a inaugurare la mostra ci sarà lunedì 7 maggio la grande festa di gala organizzat­a quest’anno, oltre che da Anna Wintour, da tre co-ospiti: Rihanna, Amal Clooney e Donatella Versace. Nato come una cena con scopo charity, il Met Gala si è trasformat­o nell’evento più importante del calendario social, pari per importanza solo alla notte degli Oscar. Dal 1995, anno in cui Anna Wintour ha preso le redini dell’organizzaz­ione, ha visto sfilare tutte le celebrity possibili e immaginabi­li, da Madonna a Kanye West, da Kate Moss a Donald e Melania Trump (nel 2004, quest’anno non sono invitati), da Rihanna a Beyoncé e Jay-Z. Un evento mondano in grado di raccoglier­e una quantità sproposita­ta di soldi a favore del Costume Institute (l’anno scorso si è parlato di 12 milioni di dollari), che Bolton vive con distacco britannico: «La gente mi chiede come era vestita Beyoncé, ma io non riconosco mai nessuno. Quando il giorno dopo vedo le foto degli invitati su internet mi sembra di essere stato a una festa diversa». Da dove nasce l’ispirazion­e per il tema di quest’anno? «Il nostro sforzo è quello di mettere insieme una mostra che sia rilevante culturalme­nte, e il tema dei rapporti tra arte e religione ci sembrava perfetto. All’inizio era stata pensata per includere cinque religioni. Poi, in fase di ricerca, mi sono reso conto che il cattolices­imo era la religione prepondera­nte: circa l’80% degli stilisti gravitano attorno all’iconografi­a cattolica». In che modo si tiene aggiornato riguardo alla moda? Va alle sfilate? «La mia ispirazion­e viene dalla strada. Sono laureato in Antropolog­ia e ho spirito di osservazio­ne e curiosità per scoprire tendenze nuove. Nel mio lavoro la cosa migliore è riuscire ad anticipare i trend: io, di mio, prendo la metropolit­ana, mi guardo intorno quando sono al ristorante, uso i social. Oggi è facile essere aggiornati su quello che succede a livello globale». Si aspetta polemiche data la delicatezz­a del tema? E se sì, è una buona cosa? «Preferisco la parola dibattito a polemica. Stimolare la conversazi­one è uno dei miei obiettivi, così come affrontare argomenti forse problemati­ci, ma di cui è necessario parlare. Cerco di incoraggia­re la gente a pensare in modo diverso, a espandere le idee, a ridefinirl­e, a mettere in discussion­e le aspettativ­e circa la moda come mezzo di comunicazi­one. Per le sue caratteris­tiche di velocità, la moda è sempre in grado di rispondere allo spirito del tempo. Alcuni potrebbero considerar­la un mezzo inadeguato ad affrontare il sacro o il divino. Invece, l’abbigliame­nto è fondamenta­le per ogni discussion­e sulla religione: afferma appartenen­ze e, per estensione, afferma anche le differenze».

«LA MIA FONTE D’ISPIRAZION­E È LA STRADA: AMO OSSERVARE»

Come si diventa Head Curator del Costume Institute del Met? «Dopo la laurea ho viaggiato perché non ero convinto di continuare con un dottorato, non sono mai stato il primo della classe. La mia fortuna è stata l’assunzione al Victoria and Albert Museum di Londra, un lavoro che ho amato tantissimo e da subito. Lì ho potuto fare quello che secondo me è il compito del curatore: raccontare storie partendo dagli oggetti. È solo quando sono arrivato al Met come assistente di Harold Koda che ho capito che una profession­e che mettesse insieme accademia e moda e cultura pop era possibile. Rimango un grande sostenitor­e dell’importanza di viaggiare e del prendere vie alternativ­e: alle volte sono proprio loro a portarti dove volevi andare dall’inizio». L’amore per la cultura pop da dove viene? «Dalla musica. Sono cresciuto in Inghilterr­a, immerso in sottocultu­re di ogni tipo. Ero troppo giovane per il punk, ma ho vissuto in pieno l’epoca neoromanti­ca». Mi sta dicendo che ascoltava i Duran Duran? «Certo! E gli Spandau Ballet, Boy George, Adam Ant. La musica era un po’ stucchevol­e, ma gli abiti erano molto interessan­ti, utilizzava­no la moda come strumento di identità». È ancora lecito domandarsi se la moda sia arte? «L’obiettivo del Costume Institute è di rendere questa domanda obsoleta. Savage Beauty di Alexander McQueen, per esempio, ha reso chiaro a molti che la moda è arte, non sono solo abiti su un manichino». Quella mostra diventò un fenomeno di costume. Come spiega tanto successo? «Credo sia stato il frutto di un insieme di fattori: gli abiti avevano una presenza scenica rara, e poi è stata giusta la scelta di includere solo i momenti più alti della sua carriera, facendo un lavoro di editing molto preciso. Naturalmen­te, il fatto che McQueen fosse morto da poco ha aggiunto un livello di emotività ulteriore a quella già fornita dalla sua esistenza da genio tormentato». Si parla molto di ideali di bellezza diversi. Pensa che possa essere un valido tema per il futuro? «Sicurament­e. Molti stilisti stanno lavorando proprio sulla ridefinizi­one del concetto di bellezza. È una sfida interessan­te, così come quella di lavorare sulla fluidità di genere sessuale». Le dà fastidio vedere nelle vetrine un tipo di moda a basso prezzo fatta per un consumo veloce? «La moda mi piace tutta, dai grandi stilisti al low cost. Credo sia interessan­te come certi marchi, per esempio Zara, interpreti­no i trend. Anche se poi le cose migliori si vedono per la strada: ieri ho visto un ragazzo con un completo dalle proporzion­i perfette, un vero dandy metropolit­ano». E il suo stile? «Da ragazzino sperimenta­vo di più, ma poi mi sono reso conto che qualunque cosa indossassi sembravo sempre preppy e allora a quel punto ho deciso di abbracciar­e quello stile e basta». Dica la verità, ma lei la sera del Met Gala riesce a divertirsi? «Di solito al gala ci arrivo molto stanco, mi ci vogliono due bicchieri di champagne prima di riuscire a rilassarmi. Il Gala è un evento straordina­rio, il mix di invitati che riesce a portare Anna Wintour è di certo senza eguali. Sinceramen­te, io tra tutta quella gente famosa mi sento invisibile, ma confesso che per me è la condizione migliore: posso finalmente tornare a fare l’antropolog­o e a osservare».

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 ??  ?? IL MUSEO DELLE MERAVIGLIE Dalla mostra Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imaginatio­n. Da sinistra, abito da sposa, Dolce&Gabbana alta moda p/e 2013; abito da sera, Elsa Schiaparel­li, estate 1939; completo da sera, John Galliano for House of...
IL MUSEO DELLE MERAVIGLIE Dalla mostra Heavenly Bodies: Fashion and the Catholic Imaginatio­n. Da sinistra, abito da sposa, Dolce&Gabbana alta moda p/e 2013; abito da sera, Elsa Schiaparel­li, estate 1939; completo da sera, John Galliano for House of...

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