La Francia sono io
All’inizio era «il banchiere», dopo un anno all’Eliseo è «il presidente delle grandi città». Nonostante le contestazioni e un calo di consenso EMMANUEL MACRON non crede nei sondaggi, ma nell’importanza «monarchica» del contatto diretto, che sia con Trump
Èun giovedì pomeriggio di marzo e, in una saletta al secondo piano dell’Eliseo, attendo il mio appuntamento delle sei con il presidente francese Emmanuel Macron. Macron occupa un ufficio enorme, lo stesso in cui sedeva de Gaulle quando aveva fondato la Quinta Repubblica nel 1958. L’arredamento sembra immutato dai tempi del generale, ma vedo almeno un oggetto che di sicuro non c’era: un tavolino di marmo e acciaio spazzolato del designer francese Toni Grilo. È solo uno dei pezzi di design e di arte moderna e contemporanea – incluse opere di Picasso, Alechinsky e Dubuffet – che Macron e sua moglie Brigitte hanno preso a prestito dalle collezioni dei musei francesi per ravvivare il venerabile palazzo settecentesco. Macron stesso mi spiega la divisione dei compiti: «Lei seleziona alcuni pezzi e insieme facciamo la scelta finale». Anche se il presidente deve affrontare la prospettiva di pesanti scioperi e prepararsi per l’incontro con la cancelliera tedesca Angela Merkel il giorno dopo, l’argomento a cui torna più spesso non sono le proteste in patria o la geopolitica, ma la cultura. Parlando a ruota libera in un inglese impeccabile con leggero accento, mi racconta quando ha incontrato questa passione — la sua «ossessione», la definisce — e come lo ha formato come leader. «La cultura è sempre stata parte della mia educazione personale», comincia a spiegare, «e direi che è collegata direttamente al mio percorso politico, oltre ad aver contribuito alla mia emancipazione. Sono nato ad Amiens, nel Nord della Francia. I miei genitori erano medici, lavoravano in ospedale e mia nonna ha
rivestito un ruolo davvero importante per me. Prima i libri, poi la pittura e la musica – ho suonato il piano per molti anni – sono diventati il modo migliore per sfuggire alla vita quotidiana... Di gran parte della mia infanzia e giovinezza, fino ai 16, 18 anni, ho tanti ricordi delle letture e della musica. Alcuni autori, come Stendhal e Gide, e molta musica, tra cui ovviamente Bach, Beethoven, Mozart, Schubert sono tuttora il mio giardino segreto». In veste di presidente sostiene che la cultura «fa parte di un progetto di emancipazione per tutto il Paese. Perché con la cultura si possono trasmettere emozioni e sentimenti in grado di abbattere le barriere tra le persone, trasformare la loro vita, emanciparle». Per esempio, i quartieri più poveri sono tagliati fuori dal vasto mondo della cultura, e con emancipazione Macron intende appunto il tentativo di colmare quel vuoto, di avvicinare quelle realtà. Nonostante i suoi sforzi, alcune figure di spicco del mondo dell’arte e intellettuali come Alain Mabanckou lo hanno criticato perché sembra abbracciare una sorta di nuovo, arrogante colonialismo che si appropria delle arti delle minoranze e dei migranti e le incorpora in una grandiosa «cultura francese» — una visione superata, secondo i detrattori di Macron, oltre che elitista, bianca, e Parigi-centrica. Macron, che ha nominato la scrittrice francese di origini marocchine Leïla Slimani per aiutarlo nel suo tentativo di promuovere il francese all’estero e soprattutto in Africa, non è d’accordo. «Per me la cultura è parte di quello che bisogna fare qui», dice, «perché non hai a che fare solo con dettagli tecnici, ma con i simboli». I simboli sono fondamentali per Macron. Per la sera della sua elezione lo scorso maggio, per esempio, aveva organizzato una messinscena teatrale: sulle note dell’Inno alla gioia di Beethoven, il nuovo presidente aveva attraversato da solo la piazza davanti al Louvre mentre i fari proiettavano la sua ombra gigantesca sulla facciata dell’ex Palazzo reale. Due mesi dopo, aveva convocato una seduta congiunta del Parlamento alla reggia di Versailles, ex residenza di Luigi XIV, il «Re Sole». In dicembre ha festeggiato i suoi quarant’anni con un fine settimana in famiglia al Castello di Chambord, gioiello rinascimentale fatto erigere da Francesco I. Scegliendo questi luoghi imponenti, Macron voleva porre l’enfasi sul ricco patrimonio culturale del Paese – le patrimoine français – anche se i critici lo accusavano di tradire le sue pretese monarchiche. Macron è stato il primo leader straniero ad avere l’onore di una visita di Stato a Washington D.C. da quando Donald Trump è in carica, ma il loro rapporto non era iniziato bene. Il quarantenne Macron è un sofisticato, coltissimo esteta che cita Hegel nei suoi discorsi; Trump, 71 anni, è più a suo agio con la reality tv. Il primo dorme quattro ore, e lavora venti. Il secondo guarda quattro ore di televisione al giorno. Uno ha sposato un’insegnante di 24 anni più grande di lui, l’altro una modella più giovane di 24 anni. Anche sulle questioni politiche, le differenze sono macroscopiche. «Sono stato sempre molto chiaro e diretto sui nostri disaccordi», mi dice Macron. «Non è che siccome siamo alleati non possiamo essere in disaccordo, anzi! Le forti relazioni bilaterali tra i nostri due Paesi ci permettono di affrontare le divergenze in modo costruttivo». Per quanto riguarda la storia personale, i due presidenti hanno parecchio in comune: entrambi sono il prodotto del settore privato, entrambi erano outsider in politica e sono stati eletti al primo tentativo; entrambi hanno approfittato di un rifiuto populista dei partiti tradizionali; entrambi hanno una vena autoritaria; entrambi condannano senza sosta l’Islam radicale; ed entrambi, nel bene e nel male, tentano di realizzare le promesse fatte in campagna elettorale.
Idue presidenti hanno molto di cui parlare: accordi commerciali, Siria, cooperazione militare, reazione agli attacchi terroristici. Nato nel 1977, Macron aveva completato gli studi superiori al prestigioso Lycée Henri-IV a Parigi, poi si era laureato in filosofia all’Université Paris Nanterre, aveva studiato politiche pubbliche all’Institut d’Études Politiques de Paris (noto come Sciences Po), e si era specializzato alla celebre École Nationale d’Administration, da dove viene la crème dei funzionari governativi. Nel frattempo aveva forgiato due relazioni che ebbero una profonda influenza su quello che definisce il suo «destino»: una con il filosofo Paul Ricoeur, noto studioso di fenomenologia, che era diventato per lui un mentore intellettuale. L’altra gli ha proprio cambiato la vita: alle superiori si era innamorato della sua insegnante di teatro, Brigitte Trogneux. Anche se all’epoca lei aveva un marito e tre figli, anni dopo si erano sposati, nel 2007. «Ci sono momenti nella vita in cui devi fare scelte cruciali», aveva detto la first lady a
«C’è bisogno di qualcuno che decida. La gente a volte deve odiarti, ma deve poterti toccare»
un intervistatore. «Se non avessi fatto questa, avrei perso un pezzo fondamentale della mia vita». Oggi sono una coppia molto affiatata, non hanno avuto figli, e viziano il loro adorato cane, Nemo, che può vagare in tutto il palazzo. Dopo aver lavorato quattro anni come investitore finanziario, Macron era stato reclutato dal presidente socialista François Hollande per diventare il suo vice capo del personale. Hollande, che considerava il giovane suo protégé, l’ha poi nominato ministro delle Finanze nel 2014. Da quell’invidiabile posizione, Macron aveva fatto un audace – alcuni dissero sleale – calcolo politico. Convinto che l’impopolarità di Hollande avrebbe sabotato la sua rielezione, Macron si era dimesso dal suo ruolo in Gabinetto, aveva formato un nuovo movimento politico e lanciato la propria scommessa presidenziale. Era una vittoria improbabile per un candidato senza una chiara etichetta politica e soprattutto privo di precedenti esperienze elettorali. E l’establishment politico era sbigottito: «Non avevamo capito fino a che punto gli elettori erano delusi», dice Pascal Perrineau, professore di scienze politiche a Sciences Po, «quanta sete c’era di un nuovo tipo di politica. È stato un rifiuto totale della classe politica tradizionale. Macron è un prodotto, venuto dal nulla, della generazione di internet e delle start-up». Poi, nelle elezioni parlamentari seguite alla vittoria di Macron, il suo neonato movimento aveva ottenuto la maggioranza di seggi, confermando al nuovo presidente il mandato di realizzare il suo ambizioso programma di riforme economiche, sociali e istituzionali. Nei primi dieci mesi Macron ha contribuito a rivedere le rigide leggi sul lavoro, nella speranza di ridurre il tasso di disoccupazione che ora si è assestato intorno al 9 per cento. La determinazione a imporre riforme sottolinea la sua idea di rappresentare ciò che lui stesso definisce, prendendo a prestito dall’antica mitologia, un presidente che ricorda la figura di Giove, comandante degli dei, i cui ordini e fulmini lanciati dalla cima dell’Olimpo determinavano il destino dei suoi sottoposti. Certo, il rischio di strafare c’è e la popolarità di Macron è caduta in picchiata dal 66% di voti dell’anno scorso: in marzo, un sondaggio importante ha mostrato che la percentuale sfavorevole era salita al 57%. Macron rimane impassibile. «Non ho mai creduto ai sondaggi», dice. Profondo conoscitore delle arti, di fatto amministratore del patrimonio artistico, Macron non ha perso tempo a dipingere la sua tela manageriale. A livello internazionale, Macron vede la cultura francese come un vettore. In tutti i suoi viaggi all’estero si porta dietro scrittori, artisti e registi francesi e cerca contatti con varie figure culturali nel Paese ospite. A un certo punto, accenno al fatto che nel mondo del dopoguerra è la cultura americana a dominare, da Hollywood alla Coca-Cola, e ora Silicon Valley. Macron non è d’accordo: «Non siamo sotto il dominio della cultura americana, anche se è ovviamente presente, molto più di un secolo fa. I francesi sono sempre riusciti a conservare il proprio immaginario, i simboli, il paesaggio, e a fare molto di più». Mentre prendiamo un caffè sul Boulevard Saint-Germain, Frédéric Mitterrand, ex ministro della Cultura e nipote dell’ex presidente, inquadra la visione di Macron nel contesto storico. «Nella tradizione francese», dice, «la cultura è territorio del presidente. Sotto de Gaulle la cultura era de Gaulle. Sotto Mitterrand, era Mitterrand. La repubblica ha ereditato la tradizione monarchica e ne ha mantenuto alcuni aspetti. Francesco I riceveva da Vinci. Gli unici amici di Luigi XIV erano Racine e Molière». Il motivo per cui Macron ha posto così tanta enfasi sulle arti durante la sua campagna, spiega Mitterrand, è che «persino quel segmento di popolazione che non va a teatro, nei musei o al cinema, si aspetta che il capo dello Stato sia colto». Macron è perfetto: giovanile senza sembrare immaturo, è un’eleganza pacata, la sua, senza eccessi. Anche se ha avuto una giornata lunga, ha stretto un’infinità di mani e presenziato a una riunione dopo l’altra, non mostra mai segni di fatica. Io ero esausto, mentre Macron dava sempre l’impressione di essere fresco come una rosa. Nella sua cura per l’immagine sono racchiusi i semi di una specie di culto della personalità. Come Barack Obama, che è sotto molti aspetti il suo modello, Macron si presta volentieri a comparire nei selfie che gli vengono richiesti. La routine è sempre la stessa. Il presidente prende il cellulare della persona che ha chiesto il selfie, lo alza, sorride e scatta. È un modo per conquistare la gente, ma fa anche parte di una campagna di costruzione dell’immagine in cui la fotografia ha un ruolo centrale. Soazig de la
«Tentano da sempre di affibbiarmi un’etichetta: “il presidente dei ricchi”. Ma non mi interessa»
«Stare tra le persone mi fa capire la loro paura, l’ansia, l’entusiasmo. È il sondaggio migliore»
Moissonnière, la fotografa ufficiale del presidente, lo accompagna in ogni viaggio, insieme a una squadra che si occupa dei video, e lo segue nelle sale del palazzo dove lavora. Certo, costruire l’immagine è fondamentale nella strategia di qualsiasi presidente, ma in effetti Macron capisce quasi d’istinto il potere di una foto o di un video in risposta alle immagini negative lanciate da critici e media, che spesso lo ritraggono come il prodotto della privilegiata élite parigina, chiuso nella sua torre d’avorio. Laurent Wauquiez, leader appena nominato del partito conservatore Les Républicains, ha creato scompiglio accusando il presidente di «odiare la provincia». Quando glielo accenno, Macron si irrigidisce. «Sa», dice, fissandomi con gelidi occhi azzurri, «è normale che gli oppositori e la stampa cerchino di incasellarti. Fin dall’inizio della mia carriera politica hanno tentato di affibbiarmi un’etichetta. Prima ero un banchiere, poi ero in una “bolla”, poi ero il “presidente dei ricchi”, ora sono il “presidente delle grandi città”. Non mi interessa», dice, scrollando le spalle e alzando lievemente il tono della voce. «Non è un mio problema se hanno questa ossessione». In effetti, però, Macron ha un problema con le campagne, e lo sa. Nel primo turno delle presidenziali lo scorso maggio, Marine Le Pen aveva superato Macron nelle zone rurali del Paese. Parte della sfida è rappresentata dal fatto che Macron non ha un vero partito alle spalle. Il movimento centrista che ha creato è un gruppo eclettico con poca esperienza politica, se non nulla, e nessuna struttura a livello nazionale. «Quella di Macron è stata una vittoria dall’alto verso il basso», spiega Pascal Perrineau di Sciences Po. «Ora deve creare un movimento dal basso, ha mostrato una certa arroganza tecnocratica e sa di avere un problema con la Francia regionale. I suoi viaggi nelle campagne servono a modificare l’immagine, a mettersi un po’ di fango sotto le scarpe». Riassumendo, afferma, «Macron ha bisogno di capire quello che Tip O’Neill già sapeva: “Qualsiasi tipo di politica è locale”». Macron, in verità, non è avverso all’idea che qualcosa dello spirito monarchico aleggi ancora sotto le varie forme della repubblica. «Due anni fa ho scritto che eravamo ancora una monarchia, per così dire, in cui il re era stato ucciso ma il simbolo rimaneva», dice. Gli chiedo se si sente investito da una sorta di sovranità ereditata dai suoi predecessori. Dopo una pausa, risponde: «Penso sia diverso, ma c’è stato un vuoto dopo la fine della monarchia, perché c’è bisogno di qualcuno che decida nel Paese. E quello è il ruolo presidenziale, il che significa che la gente a volte deve odiarti, ma deve poterti toccare. Ed è fondamentale capire questa funzione, questo ruolo decisionale. Devi guidare il Paese, accettare il fatto che a volte l’elettorato non ti ama, non ti apprezza… Ma bisogna sempre essere in diretto contatto con la gente, è necessario per prendere le decisioni migliori». Sarebbe un errore sottovalutare l’abilità di Macron di affascinare i suoi compaesani con il «contatto diretto». In televisione può apparire rigido, pedante, ma di persona è molto carismatico. Come lo scrittore Emmanuel Carrère ha notato in un profilo di Macron sul Guardian verso la fine dello scorso anno, «potrebbe sedurre una sedia». Macron mi racconta che si diverte sinceramente a stare tra la gente. «Ascolti, impari. Perché hai un contatto diretto, senti le persone, senti la loro paura, l’ansia, l’entusiasmo, le emozioni. Per me è il sondaggio migliore. Senti le persone quando ti si avvicinano, e se arriva qualcuno che non è d’accordo con te, che è arrabbiato, è un buon segnale, perché si aspetta qualcosa da te… Hai bisogno di una folla eterogenea perché il Paese è eterogeneo. E poi, così ti rendi conto se ti ascoltano o no». Fa una pausa, poi completa il suo pensiero: «Quando spieghi, con umiltà e in termini molto concreti, la gente ti capisce».
Macron torna all’argomento della sua visita di Stato e della sua «relazione molto personale» con Trump. «Apprezzo molto le conversazioni schiette con il presidente Trump, ci aiutano a capirci meglio», continua. «Che sia l’Iran o gli accordi commerciali, credo che ora possiamo trovare un terreno comune. Sia la Francia che gli Stati Uniti vogliono impedire all’Iran di sviluppare armi nucleari e desiderano mettere fine a pratiche commerciali distorte… Questo dialogo rientra nel contesto di un’alleanza unica e durevole tra i nostri due Paesi. Il forte legame bilaterale è la chiave: la Francia è il più antico alleato degli Stati Uniti. Saremo sempre fianco a fianco».
[traduzione di Gioia Guerzoni]