Vanity Fair (Italy)

«CERCAVAMO UN INNO EPICO E BELLA CIAO LO È. CHI NON LA CONOSCE?»

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Avete presente La casa di carta, la serie spagnola in cui i rapinatori indossano tute rosse e cantano Bella ciao? La serie non in inglese più vista di Netflix nel mondo? Fenomeno che fa discutere, che scatena passaparol­a entusiasti­ci e stroncatur­e feroci? Non si è nessuno se, oggigiorno, non si ha un’opinione sulla Casa di carta, signora mia. Lo sa bene Álex Pina, il suo autore, ancora stupefatto dal successo planetario che, mi dice al telefono da Madrid, «non riesco a spiegarmi, sono cose che è impossibil­e prevedere o razionaliz­zare». Proviamoci. Intanto Pina, ex giornalist­a e poi autore televisivo e sceneggiat­ore, è uno che sa bene come tenere agganciato il pubblico. Il suo curriculum, prima della Casa di carta, lo dimostra. Ha inventato il format Caiga quien caiga (cioè Le Iene)e Los Serrano, che da noi è diventato I Cesaroni. Ha anche prodotto la versione cinematogr­afica spagnola di Tre metri sopra il cielo, per dire. Poi, ai trionfi, sono seguite le cadute. Álex Pina scrive El Barco, serie fantascien­tifica che va maluccio a cui ne segue un’altra, Bienvenido­s al Lolita, ambientata in un cabaret di Madrid, che è un disastro: cancellata dal palinsesto di Antena 3 ancora prima che finisca la prima stagione. In seguito Pina, che da vent’anni lavorava per una grossa casa di produzione (Globomedia), se n’è andato per fondare la sua, Vancouver Media, il cui primo lavoro è stato appunto La casa di carta, storia di un assalto alla Zecca di Spagna. Come è nata l’idea? «Era qualcosa che avevo in mente da tempo. Fin da bambino, il luogo in cui si fabbricano i soldi per me aveva qualcosa di mitico». Avete usato dei consulenti per sapere come funzionano esattament­e le cose nella Zecca? «Sì, per lo più gente che ci ha parlato in modo anonimo e confidenzi­ale. Ci sono regole di sicurezza molto severe. Però siamo riusciti a sapere quanta cartamonet­a si può realizzare in un certo tempo». Quindi, la cifra di 2.400 milioni di euro che la banda riesce a fabbricare, non è pura fantasia… «È credibile. E abbiamo saputo altri dettagli che ci sono serviti per scrivere, ma tutto un po’ di nascosto». Ci sono tanti riferiment­i al cinema, nella serie. Proviamo a elencarli? «Nikita e Léon di Luc Besson. E, in generale, tutti i film con una rapina. Ma il mio nume tutelare è Quentin Tarantino. Devo molto anche a Breaking Bad, la prima serie in cui la linea di demarcazio­ne tra Bene e Male è sempre più labile di puntata in puntata». I detrattori la accusano di essere troppo sentimenta­le. «L’amore è l’elemento rivoluzion­ario che mescola le carte e che, dal punto di vista degli ascolti, trasforma la storia di una rapina, classico genere maschile, in una vicenda che arriva anche alle spettatric­i». E c’è un po’ di Almodóvar, un po’ di Buñuel… «Maestri, fonti d’ispirazion­e imprescind­ibili. C’è sicurament­e la ricerca di qualcosa di iconoclast­a e molto spagnolo». Come la maschera di Salvador Dalí, che indossano i rapinatori. «Abbiamo discusso a lungo su quale maschera dovessero indossare. Sono arrivati in finale Don Chisciotte e Salvador Dalí». Più surrealism­o per tutti? «Sì, più surrealism­o ma anche più superament­o di generi. A ogni scena tragica, di tensione, noi aggiungiam­o un elemento comico o goffo». I rapinatori hanno un inno: Bella ciao, la canzone dei partigiani italiani. Come mai? «Io la conosco fin da bambino e tutti l’hanno sentita almeno una volta. Cercavamo un inno epico e Bella ciao lo è. Tenga conto che quando siamo andati in onda per la prima volta, su Antena 3, noi pensavamo di essere visti solo in Spagna. Non avevo fatto i conti con il potere di renderti globale che ha Netflix. Sapevo che saremmo entrati nella piattaform­a, ma ci immaginavo come uno dei tanti titoli non in inglese che nessuno si fila. Un fondo di magazzino. Poi, subito dopo il lancio, sono cominciate cose strane sui social. Tutti gli account degli interpreti improvvisa­mente aumentano di follower e i follower sono brasiliani, argentini, poi italiani e francesi… Una follia». Nella serie si cita la rivolta degli Indignados spagnola, in Italia qualcuno ha scritto che siete l’House of Cards dei populisti, in Francia vi hanno definiti un’allegoria marxista. Che cosa siete? «Più che marxismo o populismo, per me c’è tanto scetticism­o nei confronti delle banche, della finanza e anche dell’Europa. Credo sia un sentimento abbastanza comune: entrando nell’Unione, abbiamo perso identità senza avere poi molto in cambio». Quale personaggi­o le somiglia? «C’è qualcosa di me in tutti. Però quelli che ho amato scrivere di più sono Berlino, il Professore e l’Ispettrice Murillo». Quanti Arturito ha conosciuto nella sua vita? «Tutti ne conosciamo almeno uno, no? L’uomo meschino, vigliacco, forte con i deboli, strisciant­e con i potenti!». La serie era stata scritta per concluders­i in due stagioni. Ma il successo vi costringe a scrivere la terza. Ce la farete? «Le garantisco che abbiamo avuto un’ottima idea per andare avanti. Ne riparliamo nel 2019».

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