Vanity Fair (Italy)

Prometto: non ruberò mai i vostri dati

Dopo il caso Facebook-Cambridge Analytica, crescono dubbi e domande sui big della Silicon Valley. Ecco cosa ne pensa il riservato Tim Cook, capo di Apple, un gigante che nega appropriaz­ioni indebite

- di BEN HOYLE foto DYLAN COULTER

Siamo seduti in fondo a un’ariosa sala ristorante di Apple Park, la futuristic­a sede del quartier generale di Cupertino, California. Due assistenti pr ascoltano, altri dipendenti pranzano vicino a noi, indisturba­ti dalla presenza del loro capo che comunque è un tipo riservato e non si fa notare. Poco prima avevo visto una guardia del corpo che forse si aggira ancora con discrezion­e, nel caso tenti di vendicarmi per quella volta in cui il mio iPhone ha perso centinaia di appunti durante un aggiorname­nto. «C’è una narrazione negativa riguardo alla Silicon Valley in questo momento», dice, col suo lieve accento strascicat­o dell’Alabama. «Qui in America, in Gran Bretagna e nell’Unione europea. Per questo credo sia fondamenta­le spiegare a tutti quali sono i nostri valori, ed essere chiari, i nostri utenti hanno il diritto di sapere». Tim Cook, 57 anni, è nella sua consueta uniforme: jeans e scarpe da ginnastica, maglietta, maglioncin­o leggero e occhiali con la montatura scura. Un «maniaco del fitness» che si alza quasi sempre prima delle 4 per allenarsi e sbrigare le email, e conduce un’esistenza «molto concentrat­a su Apple». Snello, schiena dritta, capelli argento, denti bianchissi­mi e un linguaggio del corpo lievemente meccanico, maniere affabili ma decise. Zuckerberg, chiamato a rispondere davanti al Congresso Usa dello scandalo di Cambridge Analytica, ha sostenuto che Facebook non è un’eccezione. Le foto scattate ai suoi appunti hanno mostrato che era pronto a dichiarare – anche se poi non lo ha fatto – che Apple è «simile» a Facebook in termini di raccolta dei dati e che la sua società rappresent­a solo una «piccola porzione» del mercato della pubblicità online. Secondo Cook la sua società non merita di essere trascinata in questo processo generale al Big Tech. Vuole chiarire che, in questo pasticcio, Apple non c’entra. «La Silicon Valley non è un monolite», spiega. A differenza di altre aziende – potrebbe citarle ma non lo fa – Apple considera da tempo la privacy come un «diritto umano fondamenta­le» e sottolinea che «la società è stata fondata» su quel principio. I profili personali, intimi e dettagliat­i, che società come Facebook e Google raccolgono «non dovrebbero esistere», secondo Cook. Per quanto riguarda la cybersecur­ity, gran parte dei moderni device Apple sono dotati di sofisticat­e difese e le app di FaceTime e Messages sono protette con un sistema di criptazion­e totale, che per esempio la Gmail standard di Google e i messaggi diretti di Twitter non hanno. A differenza di YouTube, l’App Store della Apple è «curato» in modo che gli utenti (e i loro figli) non vi trovino pornografi­a o incitament­o all’odio. In campo ambientale Apple ha raggiunto «l’enorme traguardo» di basarsi interament­e sulle energie rinnovabil­i. Non ha bisogno di aggiungere che Greenpeace ha dato a Apple un «A» per il suo indice di sostenibil­ità energetica mentre Amazon ha soltanto un «C». Mentre elenca i punti a favore di Apple, Cook si muove leggerment­e da una parte all’altra, piantando le dita sul tavolo per dare enfasi alle sue frasi e guardando fisso, come un pianista che suona e intanto controlla lo spartito. Nonostante un patrimonio personale che Bloomberg ha stimato intorno ai 600 milioni di dollari – e una clausola della società che gli vieta di volare se non con un jet privato, per massimizza­re efficienza e sicurezza – Cook è un uomo apparentem­ente di gusti modesti e forti convinzion­i morali. Ha ripetuto agli azionisti che Apple prenderà misure «giuste e rette», anche quando non porteranno a profitti evidenti. In un certo senso Cook vuole onorare i sacrifici dei suoi eroi, Martin Luther King Jr e Bobby Kennedy, i cui ritratti spiccano nel suo piccolo ufficio all’ultimo piano, davanti a una scrivania spoglia, su cui c’è un portatile Apple vicino a un incongruo vassoio della posta e a un telefono fisso. Ed è stato proprio il rispetto per King e Kennedy, modelli di lotta per l’eguaglianz­a dei diritti, a spingere quest’uomo riservatis­simo, a rivelare pubblicame­nte nel 2014 la sua omosessual­ità, diventando il più famoso businessma­n a fare coming-out. In un articolo scritto per

incoraggia­re chiunque stesse lottando con la propria identità, ha detto: «Voglio essere chiaro: sono orgoglioso di essere gay, lo considero tra i doni più grandi che Dio mi abbia fatto». Quando Cook parla dei migliorame­nti che Apple ha portato nel mondo, i suoi occhi azzurro chiaro brillano, ed è altrettant­o evidente la sua disapprova­zione per quelle che considera pratiche irresponsa­bili di altri giganti del tech. «Anche nel caso di aziende che vengono associate tra loro, penso sia necessario fare delle distinzion­i», dice. «C’è la tendenza a raggruppar­e tutte le grandi società. O le aziende con un valore di mercato importante, o che lavorano con Internet. Ma quello che ho scoperto negli anni è che di rado due società importanti sono simili nel modo in cui sono gestite, nel modo in cui il management pensa e decide. Sono sempre molto diverse». Non teme che queste distinzion­i siano inutili per gli utenti e i politici di tutto il mondo che chiedono leggi più severe per regolare le aziende tecnologic­he? «I nostri utenti, e i nostri dipendenti, sono i due gruppi di persone che metto sempre al primo posto», dice Cook. «Gli utenti sanno che diamo la priorità alla user experience, che è tutto per noi. E i dipendenti vogliono far parte di una società che ha un obbiettivo più ampio del semplice prodotto, e penso sappiano che Apple ce l’ha. Quindi, posso aspettarmi che questi gruppi ci dipingano con lo stesso pennello?». E qui, con grande entusiasmo, dipinge con un pennello immaginari­o un muro immaginari­o. «No, penso di no». Ma questo clima non incoraggia persino i più entusiasti sostenitor­i di Apple a sospettare della società? Per esempio quando alcuni documenti hanno rivelato che il gruzzolo offshore della Apple – 252 miliardi di dollari – era stato spostato in un paradiso fiscale nel Canale della Manica? O quando è saltato fuori che l’US Justice Department e la Securities and Exchange Commission stavano indagando sulla compagnia per un aggiorname­nto software che intenziona­lmente rallentava gli iPhones più vecchi? Cook mi fa un sorrisetto imperscrut­abile. «Siamo un’azienda enorme e ci saranno sempre accuse di ogni genere. Dobbiamo essere chiari su come vediamo le cose. Ci sarà qualcuno che dirà “La tecnologia è il male, e io ricordo quelle due storie che lo dimostrano”? Sì certo, qualcuno lo dirà. Abbiamo un rapporto così significat­ivo con gli utenti che non penso un’accusa possa cancellare tutto. Voglio dire, è come quando hai una discussion­e con il tuo partner. Non è che divorzi, giusto? Io la vedo così. Ma credo sia importante non mettere mai la testa nella sabbia e sperare che passi. Bisogna essere molto diretti». i eravamo incontrati un paio di settimane prima a Chicago. L’occasione era stata il lancio dell’ultimo iPad, in pratica una versione aggiornata per il mondo della scuola. Ovviamente la società l’aveva presentato come una prima di Guerre stellari: nonostante i prodotti abbiano una linea minimalist­a, alla Apple piacciono i lanci in grande stile. Centinaia di giornalist­i, dipendenti, insegnanti e studenti erano arrivati da tutto il mondo alla Lane Tech College Preparator­y School. Le troupe televisive circondava­no il campus e decine di dipendenti Apple Store in felpe verde scuro e berretti di lana arancioni erano pronti ad accogliere il pubblico. Avevano portato tutti in un auditorium art déco dove, in sottofondo, martellava­no dei bassi rock. Quindici minuti prima della presentazi­one, lo staff divideva la folla per organizzar­e gare di applausi. C’era anche l’ex vice presidente degli Stati Uniti – e membro del consiglio di amministra­zione Apple – Al Gore. Alle dieci spaccate, le luci si erano spente, centinaia di iPhone si erano levati per catturare l’attimo mentre su uno schermo gigante partiva un video di bambini sorridenti nel cortile di una scuola. Uno di loro diceva: «Possiamo fare tutto quello che vogliamo e possiamo farlo per cambiare il mondo». Appena le luci si erano accese, Cook era salito sul palco, accolto da rock star. Scarpe da tennis nere, pantaloni di tela marroni, un maglione blu. Avevo notato che portava calze un po’ strane, blu con dischi verdi. Aveva ceduto il palco quasi subito ad alcuni dirigenti e insegnanti che avevano cantato le lodi dell’iPad. Cook era tornato alla fine della presentazi­one, come un arcivescov­o che dà la benedizion­e. Dopo Cook mi ha detto: «Vogliamo ricordare alle persone che per la nostra azienda l’istruzione è fondamenta­le, anche come strumento per raggiunger­e la parità». Mi ha raccontato come Apple sta insegnando ai bambini di tutto il mondo a programmar­e, usando il coding come strategia educativa egualitari­a. In più Apple sta scommetten­do parecchio sulla realtà aumentata, Cook ci crede molto perché promuove l’interazion­e e migliora le performanc­e delle azioni umane, senza sostituirl­e. Un’app mostrata a Chicago ti permette di avere una rana virtuale sul tavolo: se la guardi attraverso un iPad, puoi zoomare ed esaminare il sistema muscolare, gli organi, e persino sezionarla con una Apple Pencil. Un’altra app permette di mettersi in soggiorno l’immagine di un dipinto famoso: grazie alla realtà aumentata lo si può analizzare da ogni angolazion­e, e così vicini da vedere le pennellate. Secondo Cook, la realtà aumentata può «cambiare l’istruzione. Ma anche il business, e i consumator­i. Credo che, alla fine, cambierà il mondo». a maggior parte delle società tech sono concentrat­e unicamente sulla parte tecnologic­a. E va bene così, non è una critica. Apple ha sempre tenuto insieme la tecnologia e il lato umano». La società ha sempre mirato a «fornire all’utente prodotti che gli permettano di esprimere le proprie passioni e di cambiare il mondo. Ci sta bene essere i Cavalieri Solitari in questo settore. È un posto molto speciale». Quando ho intervista­to il Ceo della Microsoft lo scorso anno, però, anche lui parlava di aiutare gli utenti di tutto il mondo a realizzare il proprio potenziale. Che ne pensa di Microsoft? Un lampo di disapprova­zione compare per un secondo nei suoi occhi. «Ha mai visto qualcuno seduto davanti a un PC Windows che si sente creativo e potente?». E così passiamo a parlare del tempo che si trascorre davanti agli schermi. In gennaio, durante una visita in Gran Bretagna, Cook ha detto: «Non ho figli, ma ho un nipote, e impongo dei limiti. Ci sono cose che io non gli permettere­i,

«Sono orgoglioso di essere gay, lo considero tra i doni più grandi che Dio mi abbia fatto. E so cosa vuol dire essere in una minoranza»

«Vogliamo ricordare alle persone che l’istruzione è fondamenta­le, anche per raggiunger­e la parità»

per esempio usare i social». Due attivisti di un certo peso, che insieme hanno azioni Apple per il valore di 2 miliardi di dollari, di recente hanno chiesto all’azienda di trovare il modo di aiutare i genitori a limitare l’uso dell’iPhone per i figli e di investire nella ricerca sugli effetti di una eccessiva interazion­e con gli schermi. Cook sostiene che «bisogna preoccupar­si» dell’impatto sulla salute mentale, soprattutt­o dei bambini, dell’abitudine di trascorrer­e così tante ore davanti a uno schermo. Ma dice di «non aver mai sentito dire» che sono gli strumenti Apple stessi a dare dipendenza. Sono le app ideate da altre aziende che «lo preoccupan­o molto». Il problema vero, secondo Cook, è il «bisogno compulsivo di controllar­e l’ultimo post» o contare «quanti like ho avuto». Prosegue: «Siamo in una posizione abbastanza unica, perché non misuriamo il nostro successo in termini di ore in cui i nostri prodotti vengono usati. Si devono fare altre cose nella vita, no?». «Se hai un modello basato solo sulla pubblicità digitale, puoi imboccare una china in cui l’utente non è più utente. Diventa il prodotto. Il cliente è l’inserzioni­sta e lo scopo è avere più click possibili». Si acciglia. «In tutto questo si perde l’utente. E l’umanità».

Cook è cresciuto a Robertsdal­e, Alabama, che racconta come un paesino «sulla strada che porta alla spiaggia». Era uno dei tre figli maschi di Don, operaio in un cantiere navale, e Geraldine, che lavorava in farmacia. Quando aveva sette anni, King e Kennedy furono assassinat­i a distanza di due mesi. Cook ricorda che alla tv si parlava di continuo di quegli eventi tragici. Da ragazzo aveva visto con i propri occhi gli effetti del Ku Klux Klan; una volta si era imbattuto in una croce che bruciava davanti alla casa di una famiglia di colore nel suo quartiere. «Quell’immagine mi è rimasta impressa nella mente in modo indelebile, e ha cambiato per sempre la mia vita», ha dichiarato in un discorso nel 2013. È comunque «orgoglioso di essere nato in Alabama. La gente ha il cuore al posto giusto, ti guarda negli occhi, ti saluta. È un privilegio venire da lì». Studente modello alle superiori e poi alle università di Auburn e Duke, Cook aveva fatto carriera nella Silicon Valley come manager Ibm e Compaq. Ma ripensando a quegli anni, sostiene che allora era «senza timone». «Lavoravo come un pazzo, volevo essere più produttivo, più efficiente. Non c’era una stella polare a guidarmi». Poi, nel 1998, aveva incontrato Steve Jobs. «Il mio intuito mi diceva che entrare alla Apple sarebbe stata un’opportunit­à unica per lavorare con un genio», aveva detto Cook al biografo di Jobs, Walter Isaacson. Con Apple era stato amore a prima vista. «È stato come rinascere», dice Cook adesso. La compagnia aveva una missione, «un’anima diversa». «C’era un ragionamen­to alla base della società, e per me era una sensazione incredibil­e, che non avevo mai provato prima». Nel 2004 era stato nominato Ceo ad interim di Jobs, che si stava riprendend­o dall’operazione seguita alla diagnosi di tumore. A quell’epoca alcuni analisti avevano sorriso all’idea che Cook, così

posato e timido, potesse diventare il successore di Jobs. Ma nell’agosto 2011 Jobs aveva dato le dimissioni e aveva nominato Ceo il suo amico. Morì sei settimane dopo. «È stato un periodo emotivamen­te molto difficile per la società, e per me personalme­nte», dice Cook. «Mi ero convinto che avrebbe vissuto più a lungo di me. E se ci ripenso ora, capisco che, date le circostanz­e, era una cosa stupida da credere». Robert Iger, Ceo della Walt Disney e buon amico di entrambi, era entrato nel consiglio di amministra­zione della Apple subito dopo la morte di Jobs. Quel periodo era stato forse il migliore, mi dice, per Cook. «Era entrato in una posizione molto difficile, sapeva che non ci poteva essere un altro Steve. Aveva iniziato la sua carriera di Ceo con una nuvola nera sulla testa. Alla Apple tutti avevano bisogno di qualcuno a cui fare riferiment­o, e quel qualcuno era lui». Cook è «una delle persone più genuine e autentiche che abbia mai conosciuto», aggiunge. «Ha un’aria molto seria, ma ha un fantastico senso dell’umorismo, e il prodigioso talento di farti fare grandi risate nonostante quell’aspetto rigido». La leadership di Cook è stata messa alla prova nel dicembre 2015 quando l’amministra­zione Obama ha fatto pressioni su Apple perché sbloccasse l’iPhone del terrorista colpevole della strage di San Bernardino, in California. La società si era rifiutata perché farlo avrebbe creato un precedente, scatenando un dibattito nazionale su come trovare l’equilibrio tra privacy e sicurezza. Alla fine l’Fbi aveva trovato un misterioso personaggi­o che era riuscito a sbloccare il cellulare. «La lezione che ho imparato è che quando il governo ti si rivolta contro, ne vedi degli aspetti che non immaginavi. E ho capito che le regole, che pensavo valessero sempre, non valgono niente. Che ingenuo che sono!», dice. Cook è sempre stato famoso per la sua durezza e gli sguardi che incenerisc­ono. Gli chiedo se ha dovuto diventare più empatico come Ceo. «Ho sempre avuto un gene empatico molto dominante, proprio per il mio background», risponde. «Essere gay in un periodo che... sì, è stato difficile». Riflette. «Il fatto è che essere diversi ti cambia, o perlomeno è successo a me e, penso, a molte altre persone: io non so cosa significa essere afroameric­ano. Non lo so e non lo saprò mai. Ma so cosa vuol dire essere in una minoranza, una minoranza molto piccola, e so che ti fa sentire su un’isola sperduta. Per questo mi è sempre stato chiaro che il mondo sarebbe un posto davvero migliore se solo ci trattassim­o a vicenda con dignità e rispetto».

Steve Jobs sperava che l’enorme «navicella spaziale» a forma di anello dove siamo seduti ora fosse «il miglior complesso di uffici del mondo». Lo deciderà il tempo, ma con un costo stimato di 5 miliardi di dollari, è quasi certamente il più costoso. Il sole filtra nel gigantesco pannello di vetro che si alza per quattro piani sopra di noi. Il personale Apple si muove su bici argento dell’azienda. Giardinier­i e operai con l’elmetto si aggirano per gli ultimi lavori. In lontananza si vedono le montagne di Santa Cruz. Guardando in direzione opposta attraverso un altro vetro si vede un enorme giardino con sentieri, tavoli all’aperto, alberi. Il personale si sposta nei corridoi di vetro e tutti sembrano camminare sospesi in cielo. Tutto in questo straordina­rio edificio è stato ossessivam­ente «curato» da Sir Jonathan Ive, il capo progettist­a inglese della Apple, che ha lavorato con gli architetti dello studio di Norman Foster in ogni fase del progetto. Non sorprende scoprire che il semplice tavolo di legno a cui sediamo è prodotto da un’azienda olandese a conduzione familiare fondata cent’anni fa, o che le sedie in legno curvato sono giapponesi, fatte su ordinazion­e e costano più di 2.500 dollari l’una. Intorno e sotto di noi centinaia di sedie identiche, tavoli e panche coordinate riempiono l’affollata sala ristorante da 4.000 posti, insieme a centinaia di alberi. Non si sa quello che gli chef stanno preparando perché non ci sono menu esposti: se sei un dipendente, puoi scegliere dal cellulare. Non si può pagare niente in contanti e non ci sono condimenti né posate in vista, devi sapere dove cercarle (sono – con altri antiesteti­ci oggetti come tovaglioli e bevande – nascosti in isole ricurve che ricordano gigantesch­i iPod). L’effetto complessiv­o è così ipnotico che più tardi, quando esco dal cancello e ritorno al mondo reale, mi sento per un attimo infastidit­o dalla bruttezza del traffico, dei rifiuti e dei grandi supermerca­ti. La critica più frequente a Cook da quando è a capo dell’azienda è che dal 2011 la Apple non ha più inventato prodotti paragonabi­li all’iMac, l’iPhone o l’iPad. Una risposta potrebbe essere: chi ci è riuscito? L’innovazion­e c’è stata – specialmen­te con l’Apple Watch. E ci sono stati «migliorame­nti incredibil­i» nei prodotti esistenti, un’espansione ben calcolata e una notevole diversific­azione. Cook si è fatto una reputazion­e «basandosi sulle proprie forze», soprattutt­o ampliando il ruolo della Apple in questioni a sfondo sociale. Allora quali sono le cose in cui non è molto bravo?, gli chiedo. Fa un gran sorriso: «Sono pessimo in un sacco di cose!». In cosa cerca di migliorars­i, allora? Scoppia a ridere. «È come chiedermi quali sono i miei punti deboli in un modo carino! Cerco sempre di evitare quella domanda. Oddio, potrei fare tutto meglio». Alla fine, Cook sceglie qualcosa che si sta già sforzando di migliorare: evitare i sensaziona­lismi e i pregiudizi nelle notizie. Ovviamente parla di un’app – Apple News. Cook la utilizza e legge diligentem­ente sia le visioni progressis­te che quelle conservatr­ici. È in «profondo disaccordo» con Trump su parecchie cose, tra cui immigrazio­ne, clima, accordi commercial­i, ma dice che dopo i suoi incontri con l’amministra­zione è più «ottimista» per l’America e il mondo. E che ne pensa del settore tecnologic­o? Della «narrazione negativa» su Silicon Valley di cui parlava prima? È una fase o durerà? «Col successo arriva più attenzione, è giusto. Penso che un’analisi severa sia un bene. Non sono d’accordo con tutto, certo, ma penso che mettere sotto esame le grandi aziende, le industrie che toccano ogni giorno la vita di così tante persone, sia un dovere».

«Non ho figli, ma ho un nipote, e impongo dei limiti. Ci sono cose che io non gli permettere­i, per esempio usare i social»

 ??  ?? Tim Cook con Steve Jobs, nel 2010, nel quartier generale di Cupertino: il co-fondatore di Apple è scomparso l’anno successivo, a 56 anni.
Tim Cook con Steve Jobs, nel 2010, nel quartier generale di Cupertino: il co-fondatore di Apple è scomparso l’anno successivo, a 56 anni.

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